"Who is the Sky?", il sublime pop ottimista di Byrne

Dopo sette anni torna con un album, leggero e profondo. Ci sono anche St Vincent e Hayley Williams

Recensione del 05 set 2025 a cura di Michele Boroni

Voto 8/10

Era da sette anni che David Byrne non incideva un disco da solista. In mezzo ci sono stati un lungo tour mondiale e una residenza a Brodway con “American Utopia”, una pandemia e un incontro cordiale con i suoi ex compagni dei Talking Heads per la presentazione della versione restaurata in 4k di “Stop Making Sense”. 

Un disco pop 

Il tempo passa anche per Mr. Byrne – nonostante abbia appena annunciato il suo matrimonio a 73 anni – ma il Nostro ama ancora tantissimo suonare e incidere dischi. Dischi pop. Perché nonostante il titolo ermetico e la copertina psichedelico digitale “Who is the sky?” è un disco straordinariamente pop. 12 canzoni eseguite con l'entusiasmo di un ventenne, quasi tutte della durata inferiore ai tre minuti e mezzo, scritte con lo scopo principale di divertire ma anche ispirare. Per rendere la confezione particolarmente catchy, Byrne ha chiamato Kid Harpoon, alias Tom Hull, il cantautore e produttore britannico noto per aver lanciato la carriera solista di Harry Styles e che evidentemente ha inserito nelle canzoni i morbidi synth e certi ritmi frizzanti. Insieme a lui la Ghost Train Orchestra, un ensemble di New York che da corpo alle canzoni con archi e ottoni. E poi il collaboratore di lunga data Mauro Refosco alle percussuoni, i tamburi aggiuntivi di Tom Skinner e, ai cori, alcune giovani colleghe come Hayley Williams dei Paramore e St Vincent, che fu spalla di Byrne in “Love This Giant” del 2012. 


Le canzoni 

I pezzi sono tutti accattivanti e il tono un po' weird ma decisamente ottimista a qualcuno potrà ricordare “Naked”, l'ultimo disco del 1988 firmato Talking Heads, anche se in realtà gli album solisti di Byrne degli anni zero - apparentemente minori nella sua discografia – avevano sempre questo tono. 
La canzone d'apertura “Everybody Laughs” - il primo singolo uscito in anteprima – è una celebrazione effervescente della condizione umana che ha preso una deviazione dalla strada verso il nulla, mentre la deliziosa “When we are singing” offre qualche accenno di riflessione sulla mortalità. Gran parte dell'album è plasmato sull'idea di trovare un modo per sorridere nei momenti difficili: attraverso il conforto degli oggetti inanimati dentro casa (“My apartment is my friend”), l'interiorità (“A Door Called No”), ma anche attraverso riflessioni sull'aspetto esteriore e sul mito di apparire sempre giovani (“It's fucking cliché” canta in “Moisturizing Thing”). “I met the Buddha at a Downtown Party” ha la dolcezza che ispira un'immagine amichevole per Byrne, ma costellata da alcuni commenti taglienti e domande universale che costellano tutto il disco. Perché ci avveleniamo il fegato? Qual è lo scopo per andare avanti? Chi è il cielo?
Dal punto di vista musicale ci sono le abituali sfumature latine (“"What Is The  Reason For It?”, “The Truth”) ma anche le melodie maccartiane (“She Explains Things To Me”, brillante canzone in cui si enumerano i vantaggi di stare con una donna più intelligente di lui). Tuttavia Byrne non rinuncia alla lezione del suo maestro Tom Zé e alla no wave per un pezzo sghembo come “The Avant Garde”. 
Sono commenti e riflessioni brillanti su canzoni leggere e cantabili a cui la sezione d'archi aggiunge una profondità che solo in pochi oggi riescono a dare. 

Grazie a Dio che c'è David Byrne!

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