«Una volta ricevuto i Grammy ho pensato: “Ecco, quando mi cerchi su Google ora c’è scritto ‘Miley Cyrus, artista vincitrice di un Grammy’”. Adesso posso andare a fare la mia roba strana che mi piace fare», ha detto Miley parlando delle circostanze in cui ha preso forma “Something beautiful”, il suo nono album. L’allusione è ai due “Oscar della musica” vinti lo scorso anno con la hit “Flowers”, come “Record of the Year” e come “Best Pop Solo Performance”, dopo i quali la popstar è passata giustamente all’incasso. Cercando di capitalizzare quel successo da 2,5 miliardi di streams. Il grande pubblico l’ha soddisfatto: ora Miley Cyrus vuole concedersi il lusso, sempre più raro nel pop, di soddisfare sé stessa.
Il precedente, con i Flaming Lips
Lo fa con un disco che a qualcuno potrebbe ricordare quel magnifico imprevisto che fu nella sua carriera da ex stellina Disney “Miley Cyrus & Her Dead Petz”, inciso nel 2015, nel pieno della sua Wrecking ball-era, insieme ai Flaming Lips. Sonorità psichedeliche, attitudine rock’n’roll, produzioni che non coinvolgono i soliti hitmaker i cui nomi figurano nei crediti di tutti i dischi pop, ma outsider pescati dalla scena elettronica, indipendente e post-punk statunitense e britannica. “Something beautiful” è una maionese impazzita: è un disco pieno di roba. Troppo pieno, e di troppa roba. Roba che peraltro non c’azzecca con l’altra roba che contiene: in 52 minuti di musica, per dire, si passa da un’intro di spkoken word infarcita di sonorità elettroniche come “Prelude” a un pezzo cupo che mischia rock, r&b, soul e jazz come “Something beautiful” (con dei fiati che sembrano essere presi in prestito da “Blackstar” di David Bowie - listen without prejudice, come si dice in questi casi), e poi a un inno pop à la Abba come “End of the World” (ma con una strizzatina d’occhio a “Video killed the radio star” dei Buggles), e poi ancora a una ballatona à la Adele come “More to lose” (il produttore, Shawn Everett, è lo stesso che ha affiancato la diva britannica in “30”), e poi a un interludo stile 007, e poi a un pezzo come “Every girl you’ve ever loved” in cui campiona l’”Adagio di Albinoni” di Remo Giazotto tra rock e disco. Eccetera, eccetera, eccetera.
Il coraggio di una popstar che non s'accontenta
Eppure anziché risultare una catastrofe, l’album affascina e intriga, per il coraggio che nascondono le scelte della popstar: a 32 anni Miley, che ha tirato dentro il progetto produttori come Bj Burton (Bon Iver, Charli XCX), Maxx Morando (è un ex membro della band punk rock statunitense The Regrettes, oltre ad essere il suo fidanzato), Alec O’Hanley e Molly Rankin (degli Alvvays, band indie pop canadese di culto della scena) e Jonathan Rado (fa parte dei Foxygen, eroi dell’indie rock californiano), non si accontenta e alza la sua asticella. Sperimentando e sporcandosi le mani con il disco più ambizioso e commercialmente rischioso che abbia fatto fino ad oggi. Lo ha definito come «un concept album» e ha addirittura scomodato, cercando dei riferimenti, “The Wall” dei Pink Floyd.
Luci e ombre
In realtà del capolavoro della leggendaria rock band britannica non c’è nulla, eppure Miley insiste nell’invitare gli ascoltatori a unire i puntini e a cercare il filo che lega le tracce: «È un concept che è un tentativo di curare una cultura malata con la musica. La mia idea era di fare “The Wall”, ma con un guardaroba migliore e più glamour e pieno di cultura pop», ha detto lei, che non a caso sulla copertina indossa un abito d’archivio di Thierry Mugler del 1997, descritto come «un cenno sorprendente» all’estetica «audace» dell’album. L’immagine vede Cyrus avvolta nell’oscurità mentre è circondata da alcune luci, enfatizzando il tema del disco: trovare la bellezza nei momenti bui, perché «hanno un punto di bellezza. Sono l’ombra, sono il carboncino, sono le sfumature. Non puoi avere un dipinto senza luci e contrasti». E neppure una popstar, verrebbe da dire.