«Metti un orecchio sul mio petto / e all'improvviso hai capito tutto / non c'è alibi più debole di un alibi di ferro / per continuare a piangersi addosso». A prenderli così, i versi sembrano uscire da un disco del Lucio Dalla degli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80, quello della magnifica trilogia “Com’è profondo il mare/Lucio Dalla/Dalla”, di “Cara”, “Mambo”, “Futura”. Invece sono quelli di “Non c’è vita sopra i 3000 Kelvin”, una delle nove canzoni contenute nel nuovo album di Giorgio Poi, “Schegge”.
Non è solo una suggestione: c’è un filo che sembra unire lo stile del cantautore con il mondo dalliano, almeno nei testi e nelle atmosfere evocate dalle sue canzoni. In “Schegge” il debito è forse ancora più evidente che nei precedenti “Fa niente”, “Smog” e soprattutto “Gommapiuma”. Sarà che, novarese di nascita, romano di adozione ma cosmopolita di vocazione, ha vissuto per anni a Bologna, la città che ha nutrito il cantautore di “Piazza Grande”, e in un modo o nell’altro la sua scrittura ha assorbito i colori e l’aria di quella città (ma questo disco in particolare è nato a Roma, dove è tornato a vivere); ma del resto già ai tempi dell’esordio del 2017 con “Fa niente”, che gli permise di farsi largo con dignità tra i protagonisti del circuito indie pop, Poi esplicitò di avere un legame con Dalla («Ha scritto alcune tra le melodie più belle della storia»).
Ascoltate “Un aggettivo, un verbo, una parola”. Dalla raccontava che “Cara” originariamente avrebbe dovuto intitolarsi “Dialettica dell’immaginario”, «perché all’inizio era nata come meccanismo progressivo d’invenzione del desiderio». Della sua canzone, invece, Giorgio Poi dice che è «la grammatica di un addio», dove ogni strumento e la voce rappresentano la punteggiatura di un brano scritto nell’attimo esatto in cui l’addio si compie, tra ricordi di capelli sfogliati (che non si riesce a contare?) come pagine e un domani che arriva inesorabile (la notte sta morendo?). La canzone suona come il manifesto del disco: i nove brani sono istantanee precise, piccoli quadri surreali e poetici, punteggiati da ironia e freddure fulminanti. Se con “Fa niente” e “Smog”, grazie a pezzi come “Niente di strano”, “Vinavil” e “La musica italiana”, si era imposto come una delle penne più originali della scena contemporanea, con “Schegge” Giorgio Poi si consacra. E lo fa con una scrittura che rispetto a quella più lisergica e psichedelica degli esordi qui si fa più nitida e cinematografica. I testi sono caratterizzati da una propensione alla timidezza che, per restare nel mondo dalliano, ricorda quella del Luca Carboni prodotto da Mauro Malavasi, quello di “Mare mare”, “Inno nazionale” e “Le ragazze”. Prendete quello di “Giochi di gambe”, ad esempio, con quella ricerca di un equilibrio tra il desiderio di appartenere e la necessità di perdersi, tra la leggerezza delle piccole cose e il peso dei cambiamenti.
Anche i suoni sono più nitidi rispetto a quelli di “Fa niente” e “Smog”: Poi - che ha suonato tutti gli strumenti e curato ogni dettaglio sonoro del disco con la supervisione di Laurent Brancowitz dei Phoenix, protagonisti della scena alternative dance francese, di cui nel 2018 aprì i concerti negli Usa - qui spazia tra musica strumentale e riferimenti all’ambient, classica e colonne sonore, tutto materiale che arricchisce di spunti e suggestioni quel bel connubio tra tradizione italiana e influenze internazionali che rappresenta da sempre la cifra stilistica di Giorgio Poi.