Phish - FARMHOUSE - la recensione

Recensione del 26 ago 2000

Paragonato a recenti prove non proprio memorabili, “Farmhouse” è un album scintillante, splendidamente anacronistico come spesso sembra essere la migliore musica dei Phish. La band del New England ancora una volta ha saputo creare uno scenario totalmente aperto, con forti accenti ‘southern’ e una libertà stilistica da esprimersi tanto con semplici canzoni (“Farmhouse”) che con lughe suite (è il caso della conclusiva “First tube”). In mezzo a questi due estremi vivono altri 10 episodi, ognuno dei quali dotato di una sua indipendenza strutturale e fonte di una serie di rimandi artistici e stiliti che da sempre fanno parte del gioco musicale del gruppo. A chi scrive è piaciuta molto soprattutto la prima parte del disco, caratterizzata da canzoni che sposano rime e metriche di band come Allman Brothers e artisti come Neil Young, in uno splendido gioco di rimandi che ha il pregio di annullare il qui e l’ora per lasciare svettare solo la potenza espressiva della musica. Da sempre al centro di una diatriba artistica in Italia – c’è chi li adora e chi li fa a pezzi – da tempo ormai in grado di poter contare su un pubblico decisamente massiccio in quanto a fedeltà e a quantità, i Phish con questo album sembrano aver ritrovato il bandolo di una matassa che era sembrata sfuggirgli per buona parte degli ultimi anni e tornano a riproporsi come una delle band più atipiche e ispirate del rock.

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