Prima “Witness”, poi “Smile” e ora questo “143”. Che, a meno di colpi di scena che avrebbero del clamoroso, è destinato a fare la stessa fine dei precedenti due. Katy Perry continua inspiegabilmente ad autosabotare una carriera da record. “143” avrebbe dovuto rilanciare la carriera della popstar californiana dopo le vendite zoppicanti - è un eufemismo - di “Witness” del 2017 e di “Smile” del 2020: l’ultimo best seller di Perry rimane “Prism” del 2013, l’anno in cui la cantante riuscì a conquistare per l’ultima volta la vetta della classifica settimanale dei singoli più scaricati e ascoltati negli Usa, con “Dark Horse”. Che il raggiungimento dell’obiettivo fosse distante lo si era intuito già dalle faticose manovre di avvicinamento all’uscita dell’album, tra singoli spariti subito dalle classifiche (ed altri che nelle classifiche non ci sono neppure entrati), polemiche, gossip, scivoloni. Ora l’ascolto di queste undici canzoni, tra sonorità dance-pop che andavano di moda più di dieci anni fa, duetti forzati (da quello con il rapper 21 Savage su “Gimme gimme” a quello con Doechii su “I’m his, he’s mine”, passando per quello con Kim Petras su “Gorgeous”) e ingredienti mal assortiti, conferma che “143” fallisce nell’obiettivo di riportare la voce di “I kissed a girl”, una che nel corso della sua carriera ha venduto qualcosa come 180 milioni di copie, nel posto in cui merita di stare: l’élite del pop. Sia chiaro: non della storia del pop, di cui Perry fa già parte, ma del pop che conta oggi.
Il tema è: perché la musica di Katy Perry non riesce più a entrare in sintonia con il pubblico? La risposta sta dentro questo disco: tra scelte musicali polverose e la presunzione di ripresentarsi sul mercato nel 2024 con i suoni che andavano di moda nel 2010, “143” non è neppure un brutto album, ma è un album che non rispecchia lo zeitgeist, lo spirito del suo tempo. La chiacchieratissima - e criticatissima - scelta di tornare a lavorare con Dr. Luke, il 50enne produttore trascinato nel 2016 in tribunale dalla cantante statunitense Kesha con l’accusa di aver abusato sessualmente di lei, che nonostante sia stato sollevato dalle accuse continua ad essere guardato con sospetto da parte dell’industria anche per via della grande mobilitazione pro Kesha, c’entra relativamente. Qui parliamo di musica: il fatto è che Perry con Dr. Luke ha provato a riprodurre quel pop festaiolo fatto di ritornelli ultra appiccicosi, tastieroni e sintetizzatori che negli Anni Duemiladieci la rese imbattibile, e che tra il 2021 e il 2023 ha permesso alla serie di show della residency “Play” al Resorts World Theatre di Winchester in Nevada di incassare 46,4 milioni di dollari, senza uscire dalla sua comfort zone e senza capire che il mercato discografico è cambiato drasticamente e che forse era il caso di reinventarsi.
Era - è - ancora in tempo per farlo: citofonare a Kylie Minogue, rinata con l’ultimo album “Tension” e la hit “Padam padam”, arrivata pure ad esibirsi quest’estate sui palchi dei più grossi festival europei come headliner. Ci sono passaggi in cui Perry sembra strizzare l’occhio al retropop di Dua Lipa (il riff di pianoforte di “Lifetimes” cita quello di “Rich in paradise” dei “nosri” F.P.I. Project, gruppo italo house di culto degli Anni ’90, in “I’m his, he’s mine” c’è un campionamento di “Gypsy woman”, la hit del 1991 di Crystal Waters). Ma per il resto “143” è un trionfo di noiosi cliché musicali: “All the love” parte con un riff di synth che ricorda quellod i “Titanium” di David Guetta e Sia (2011) e in generale il disco è un'enorme playlist EDM e europop che suona leggermente fuori tempo.
Perry è una delle artiste di maggiore successo del millennio: non molte cantanti pop possono vantare un album con cinque singoli consecutivi finiti al primo posto negli Usa, pareggiando con “Teenage dream” il primato di Michael Jackson e delle hit del suo “Bad”. “I’m Katy Perry”, “Sono Katy Perry”, urla alla fine del video del singolo (della discordia) “Woman’s World”, aggrappata a un elicottero, quasi a voler ricordare a sé stessa e al mondo intero quello che ha rappresentato per il pop degli ultimi vent’anni. Ecco, forse Perry dovrebbe provare a dimenticarsene e approcciarsi alla nuova musica con più leggerezza e spensieratezza, senza chissà quali aspettative o ambizioni. E, soprattutto, senza il bisogno di dover essere a tutti i costi Katy Perry (e di conseguenza suonare come Katy Perry). L’alternativa è continuare a essere idolatrata nei teatri dei casinò e dei grandi alberghi americani, come un pezzo da museo.