Quando mossero i primi passi oltre vent’anni fa, con rime che se ne fregavano dell’autoreferenzialità da militanza da centro sociale, pur mantenendo una natura ribelle (ascoltate gemme come “Hardboiled-Sabotatori” o “Cronache di resistenza”), con barre che raccontavano le strade milanesi in modo inedito e cinematografico, ambendo ai soldi e al successo, il demonio per la chiusa cultura hip hop italiana di quegli anni, e portando sotto lo stesso palco un pubblico mai così eterogeneo, mettevano letteralmente in crisi. Furono un meraviglioso incendio da cui è nata una nuova luce.
Quello che sono stati, quello che sono
Oggi, a dieci anni dall’ultimo disco “Non siamo più quelli di Mi fist” (erano già allora consapevoli del cambiamento), rappresentano una certezza. Basterebbe segnare sulla linea del tempo questi due opposti punti di percezione per capire quanto i Club Dogo siano importanti oggi e quanto siano stati determinanti per il rap. “Leggendari”, nel loro caso e di pochi altri, quando si parla di rap italiano, non è un aggettivo pleonastico. Ma si sa: i ritorni, i sequel, sono sempre “pericolosi”, rischiano di tradire l’originale. “Club Dogo”, ovvero il nuovo atterraggio sulla terra di Jake La Furia, Gué e Don Joe, è il sequel, per certi aspetti il remake, che andava fatto e che la gente chiedeva. Rassicurante, non evolutivo, ben legato alle radici. Non è un caso che uno dei motti della campagna comunicativa di lancio del progetto sia stato “Per la gente”, titolo del loro pezzo del 2010.
Per i ragazzi di ieri e di oggi
“Club Dogo” è uno street album per nulla patinato, vario, ricco di barre evocative, di esercizi di stile, di tributi (dai richiami a “Note killer” in “King of the jungle” alle parole riadattate di “Vida loca” in “Milly” fino alle citazioni al rap americano, alla musica italiana e al cinema, le canzoni sono piene di chicche e rimandi), e non mancano, ovviamente, produzioni che profumano di hip hop, che spaziano da un sound più oscuro a quello più aperto e dancehall. Il tocco di Don Joe, che sfrutta alcuni (non tutti) samples da lacrimuccia di gioia per gli appassionati, è centrale, è il punto di equilibrio.
È un disco che fa salire con il sorriso il fan storico e nostalgico a bordo della macchina del tempo, facendolo sentire di nuovo ragazzino, e permette invece ai giovani di oggi di rivivere un pezzo di storia della musica italiana e del rap, genere che ha avuto la sua consacrazione. A livello lirico, con Gué e Jake in ottima forma, il mood è molto orientato sul “togliete i piedi dal tavolo, i capi sono tornati a casa”, come rivendicato nella traccia d’apertura, ci sono anche frammenti di storie personali e di altri protagonisti, ma manca quasi del tutto quell’aspetto antagonista “da crepa nel sistema” che aveva caratterizzato i primi Dogo.
Feat e futuro
Capitolo feat, ovvero Marracash, Sfera Ebbasta, Elodie e Kaze nel ritornello di “Indelebili": vale tutto, diciamolo. I finti puristi che si indignano per Elodie o Sfera forse dimenticano il coinvolgimento di Arisa in “Fragili” nel 2014 o di Giuliano Palma in “Pes” del 2012. I Dogo, soprattutto quelli degli ultimi anni prima dello stop, hanno sempre giocato con la musica. Certo, non ci fosse stata alcuna collaborazione, va altrettanto detto, il valore del disco sarebbe rimasto sostanzialmente invariato: i feat in “Club Dogo” non sono così determinanti.
In conclusione questo “ritorno al futuro” non inventa e rinnova alcunché, semplicemente perché non era necessario farlo. È Dogo sound, è Dogo music, nulla di più, nulla di meno. È un album che fa sentire gli amanti del rap a casa, è una lettera che arriva dai “padri”. Le nuove generazioni, però, non si siedano. Il futuro deve essere innovazione, non restaurazione. Pasolini amava ripetere che i “maestri sono fatti per essere mangiati”.