Facile pensare che in una formazione con Graham Coxon e Damon Albarn, Dave Rowntree sia solo “il batterista”. Il rosso musicista dei Blur, seppur più pacato dei suoi effervescenti colleghi, è in realtà una fucina di progetti e attività che spaziano tra aerei, podcast, politica, graphic novel e molto altro ancora, passando pure per una generosa lista di composizioni per film e serie televisive, dalla BBC a Netflix. Ma questa volta, con “Radio Songs”, ha deciso di metterci anche la voce, lasciandosi ispirare nel primo album da solista dai tantissimi interessi che affollano la sua quotidianità.
Una radio su misura
È lo stesso Dave a dare la misura del proprio album: “Sono cresciuto in una famiglia un po' insolita in cui, invece di andare a giocare a calcio, io e mio padre costruivamo delle radio insieme”. Un insieme di suoni, lingue e incanti che gli ha permesso di viaggiare per il mondo attraverso quanto quegli apparecchi gli restituivano, tanto da farne un punto di partenza. “Sognavo di fuggire in ogni luogo che la musica mi suggeriva. Ho provato a comporre un disco partendo da questo punto di vista, sintonizzandomi sulle stazioni della mia vita e fermandomi in ogni canzone a raccontarne un dettaglio, un punto di svolta, per poi girare la manopola e andare avanti”. Con quest’idea di zigzagare nell’etere per focalizzarsi su ricordi e riflessioni, Rowntree ha quindi impresso al suo “Radio Songs” una natura variegata, ma anche efficacemente carica di suggestioni.
Se ritrovare tracce dei suoi Blur in alcuni passaggi è un gioco alquanto immediato - l’amico Damon in proposito sembra avergli fornito più di un suggerimento - i dieci brani dell’album si adagiano dolcemente tra pop ed elettronica, in un tessuto delicato di cinematica sospensione che unisce insieme suoni acustici e sintetici. Su queste frequenze Rowntree, con la collaborazione di Leo Abrahams in cabina di regia, si affida soprattutto ai pattern delle drum machine e a melodie stratificate di tocchi jazzistici, segnali statici e orchestrazioni per evocare il proprio percorso di sentimenti e sensazioni.
Ci si sposta così dall’irruente vitalità della capitale britannica con la filastrocca urbana di “London Bridge” ai ricordi del Regno Unito nei difficili anni Settanta tracciati con “Devil’s island” (“Roar like lions cry like lambs”, descrive lo scenario nel pezzo), fino alle dolci malinconie affettive limate per sottrazione, quali “1000 miles” o la sfuggente armonia di “Downtown”. Non mancano i momenti introspettivi, nelle ballate minimali di “Machines like me” o “Black sheep”, come pure i riferimenti alla world music di “Tape measure” e alle amate colonne sonore con gli strumentali “HK” e la conclusiva “Who’s asking” che chiude il disco in un’esplosione di archi e tensioni estatiche.
Sentimenti e frequenze
Senza particolari slanci o hit da classifica, Dave Rowntree mostra così, quasi in punta di piedi, la sua dimensione musicale, attingendo tanto dal suo vissuto quanto da un bagaglio personale pieno zeppo di esperienze, dentro e fuori la propria band d’origine. Con l’immagine di una radio sintonizzata sul mondo ci offre un mix di stati d’animo e frammenti di vita, tra note autobiografiche e osservazioni su quanto abbiamo intorno. In questo modo, ciò che “Radio Songs” trasmette, restituisce lo sguardo di un artista che solitamente preferisce un punto di osservazione più defilato, ma non per questo meno incisivo, anzi.