Porcupine Tree - LIGHTBULB SUN - la recensione

Recensione del 22 giu 2000

Il culto italiano per i Porcupine Tree è sotterraneo ma decisamente solido e gli adepti sono abbastanza numerosi da giustificare qualche anno fa la pubblicazione di un live registrato nel nostro paese (“Coma divine”). Che c’è di tanto speciale nella band? Un’idea di rock che paga un evidente tributo alla stagione progressive, senza però essere palesemente derivativa. Insomma, non ci sono fotocopie del catalogo Genesis - o affini - nella discografia dei Porcupine Tree, ma il gusto per certo romanticismo epico, brani talvolta lunghi e articolati, il ruolo fondamentale giocato dalle tastiere (manovrate dall¹ex-Japan Richard Barbieri) fanno indubbiamente riferimento agli anni 70. Ciò significa che per gli orfani di quel rock (una pattuglia più nutrita di quel che si potrebbe immaginare), il gruppo è una sorta di bandiera. Esattamente per gli stessi motivi, buona parte del pubblico rock degli anni 90 si tiene alla larga da Steven Wilson e soci. “Lightbulb sun” è destinato probabilmente a mantenere le cose come stanno, consentendo ai Porcupine Tree di consolidare la posizione di gruppo-feticcio per gli appassionati, con un pugno di buone canzoni, talvolta anche acide e rabbiose, come “Four chords that made a million” o “Hatesong”. Wilson è sempre il cuore e la mente della band, e sembra in un momento piuttosto ispirato; in più, ha avuto il buon gusto di chiamare l¹ex-XTC Dave Gregory a occuparsi degli arrangiamenti di archi. Chi non mastica progressive, troverà quest’album sinceramente noioso, ancorato a uno stile oggi difficile da digerire. Ma non si può fare a meno di sottolineare la personalità dei Porcupine Tree, e ammirare la coerenza con cui mantengono la loro posizione, incuranti di trend e mode del momento. Se poi vi prende la curiosità di sapere come suonano gli anni 70 trapiantati nel 2000, è il disco giusto.

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