Sweetbox - SWEETBOX - la recensione

Recensione del 15 apr 1998

Artisti immensi e piccini di ogni epoca, ogni cosa che farete potrà essere usata contro di voi. Credeva, Johann Sebastian Bach, di aver dipinto con la sua musica la Passione di Cristo; invece stava creando un campionamento per un rap, senza nemmeno essere citato come co-autore - solo un "grazie" nei credits. Complimenti per l’ardire a Tina Harris (già negli Snap) e agli Sweetbox, quelli di "Booyah - Here we go".

Eppure - lo diciamo tra fascinazione e orrore - sentire il severo gigante della musica così imbamboccito non produce disgusto. L’abbinamento tra Bach e batteria elettronica, perpetrato in ben due pezzi ("Don’t go away" e "Everything’s gonna be alright") non è sgradevole. Una prima facile spiegazione sta nel fatto che la melodia di base è arcinota e suadente, e si insinua in mente con facilità. Ma c’è di più: il rap è talmente "altro" da questa musica che pare di vedere le immagini di un film, commentate dai preludi di Bach, operazione che a nessuno suggerirebbe rigetto immediato. Staremmo per gridare alla mirabile intuizione, se gli Sweetbox non cadessero su ben altro gradino, più in basso sulla scala musicale, ma sufficiente a svelarne la bassa macelleria. Tentando di sfruttare altre reminiscenze, infatti, riprendono "If I can’t have you", scritta dai Bee Gees per "Saturday Night Fever". E’ fatta così male che viene il sospetto che gli Sweetbox detestino i fratelli Gibb. Per non parlare di altre appropriazioni indebite (come "Brazil") o imitazioni delle cose più inutili di Prince ("Candygirl"). Una volta per queste cose si usava la parola "commerciale". Ma forse è poco: meglio dire "ipermercato". Di fianco ai detersivi.

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