In “The hitter”, il brano di “Devils & dust” qui virato in chiave Stax soul, Tom Jones si cala perfettamente nella parte: sarà che il fisico da pugile non gli fa difetto, sotto il pizzetto e gli occhiali scuri che sfoggia in conferenza stampa. “Mi piace, quella canzone, perché racconta una bella storia. Amo le canzoni con una bella melodia e quelle che raccontano delle storie adottando una prospettiva poco ovvia. Si può cantare anche di sesso, perché no, basta che il testo sia intelligente e interessante. Nella mia vita non ho mai accettato di cantare canzoni che non mi piacessero. Solo ‘What’s new pussycat?’ di Burt Bacharach, all’inizio, non mi convinceva proprio, aveva una melodia inusuale a cui non ero abituato. Poi ho scoperto che anche il film con Woody Allen di cui era colonna sonora era un po’ pazzerello, e ho accettato la sfida. Quali mi rappresentano meglio? Tutte. Nel 1987 ho cantato una ballata toccante ispirata alla figura di El Cordobes, ‘The boy from nowhere’, l’anno dopo ho inciso una cover di ‘Kiss’. Nei pub di Pontypridd, il luogo in cui sono nato, gli adulti nel juke box mettevano la prima, i ragazzi la seconda, discutendo su quale fosse il vero Tom Jones. Io rispondo che lo sono tutti e due”.
In tutto l’album, sotto i suoni modernissimi confezionati dai Future Cut (produttori trendy già collaboratori di Lily Allen, Dizzee Rascal e Goldie), covano le classiche sonorità white soul del Tom Jones d’epoca Sixties: “Da anni volevo fare un disco così”, spiega lui, “ma le case discografiche mi dicevano che quei suoni non interessavano più a nessuno. Il successo di Amy Winehouse mi ha fatto capire che si sbagliavano”. Magari vede qualche erede, in giro? “Dovessi sceglierne uno, direi Robbie Williams. Non tanto per la vocalità ma per il modo di porsi sul palco, da grande entertainer”. Aspettando magari che sir Jones abdichi dal trono: non sembra averne voglia, comunque, e già progetta un tour per presentare dal vivo il nuovo disco (“vediamo come va, poi capiremo se è il caso di scegliere le arene o locali più piccoli”). Non ama guardarsi troppo indietro, questo lo si è capito. Ma se dovesse scegliere tre momenti chiave della sua carriera? “Il primo è stato il successo di ‘It’s not unusual’, mi ha cambiato la vita. Il secondo lo show televisivo che ho condotto negli Stati Uniti tra il 1969 e il ’71, ha amplificato la mia popolarità in tutto il mondo. E il terzo…l’onorificenza da cavaliere che mi ha conferito la Regina Elisabetta”.