Corrado Rustici, un "Cervello" di ritorno... dal 1973
E bastato un solo album, pubblicato nel 1973, per trasformare un gruppo italiano in una leggenda del prog. Si parla del Cervello, autori di “Melos”, una delle punte di diamante del movimento. A differenza di altre formazioni coeve la band napoletana è stata in grado di offrire un sound in larga parte originale, che sì strizzava l'occhio ai vari King Crimson e Van Der Graaf Generator, ma sapeva mantenersi personale. Basti pensare all'assenza delle tastiere, scelta quantomeno peculiare per un gruppo prog dell'epoca, sostituite da una pedaliera dei bassi collegata a vari suoni ed effetti. Il tutto per creare un'atmosfera unica, con trame sonore al tempo stesso idilliache e nervose, spesso arcane, come a evocare i culti misterici dell'antica Grecia. C'è da ricordare inoltre che i componenti all'epoca erano tutti giovanissimi. Addirittura il chitarrista non aveva ancora 17 anni. Era però già in grado di sfoggiare una tecnica fenomenale, un gusto e un'inventiva che gli avrebbe permesso di inanellare un'esperienza dopo l'altra.
Quel chitarrista si chiamava Corrado Rustici, e quando il Cervello si sciolse ne approfittò per trasferirsi in Inghilterra e, successivamente, negli Stati Uniti. Prima per suonare jazzrock/fusion con i Nova, poi per intraprendere una carriera che lo ha reso uno dei produttori più ricercati al mondo, con esperienze che vanno da Aretha Franklin, George Michael e Whitney Houston fino ai nostri Zucchero, Ligabue, Elisa e Negramaro, solo per citarne alcuni. Ma la fame di prog non è scomparsa nel tempo, e da molti anni Corrado meditava di rimettere in piedi il Cervello con un album che potesse rinverdirne i fasti. E finalmente ci siano: il 5 dicembre 2025 uscirà “Chaire”, più che un ritorno discografico un'opera che sembra provenire da un altrove temporale. Pubblicato da Sony Music, e prodotto ovviamente da Rustici, l’album raccoglie brani scritti tra il 1974 e il 1983, dopo la tournée a supporto di “Melos”, quando Corrado e il cantante Gianluigi Di Franco (che molti ricorderanno al fianco di Tony Esposito nella famosa “Kalimba de luna”) registrarono melodie e testi pensando a un secondo album - che non sarebbe mai arrivato. I nastri di quelle idee rimaste sospese per decenni sono stati restaurati e riportati in vita attraverso un lavoro di pazienza, affetto e memoria. “Chaire”, parola greca che significa “stai bene”, “abbi cura di te”, custodisce nel titolo il suo spirito più profondo: un saluto che è anche un congedo, un dono d’amicizia e di tempo ritrovato.
«Ci abbiamo messo un po’» racconta Rustici, «circa quattro o cinque anni, per rimettere insieme il progetto. È stato molto laborioso perché volevamo una cosa fatta bene. Un lavoro lungo ma gratificante, un vero ‘love project’, come dicono in Inghilterra. Senza scopi di lucro né ambizioni di classifica: solo per ringraziare i fan che ci seguono da cinquant’anni. E ciò che è venuto fuori ci rappresenta davvero, perché restituisce ciò che eravamo allora. Quello che mi ha più sorpreso ed emozionato, nel riascoltare le vecchie idee che avevo messo giù, è stato capire che non sarei più capace di scriverle oggi. Sono passati cinquant’anni, sono cambiato. Ed è forse questo che penalizza molte reunion: magari sei diventato un musicista migliore, ma hai perso quell’innocenza di allora. Noi abbiamo avuto la fortuna di mantenere quelle idee “in bottiglia”, intatte. Ci ho potuto lavorare come se allora avessimo avuto un produttore capace di farle emergere.
Su tutto spicca il recupero della voce di Gianluigi, scomparso nel 2005, che rivive grazie a un incredibile restauro digitale.
Avevamo delle vecchie registrazioni su due piste, su audiocassette, con bozze melodiche e di testi, in alcuni casi già armonicamente complete. Dopo “Melos” andavo spesso a casa di Gianluigi e registravamo ore di idee. Per fortuna le ho conservate e digitalizzate, altrimenti sarebbero andate perse. Quattro anni fa ho iniziato a isolare la sua voce. È stato difficilissimo, la qualità era pessima, i microfoni improvvisati. Ma l’interpretazione era straordinaria, e volevo mantenerla. Grazie agli strumenti di oggi, tra physical modeling e machine learning, sono riuscito a ricostruire il suo canto, rivestendo le idee originali con un suono coerente. Non è una voce registrata oggi, ma vive dentro le sue melodie autentiche. È stato un lavoro enorme, ma ne è valsa la pena.
È un bellissimo tributo.
Gianluigi, col tempo, era diventato un grandissimo cantante e studioso della voce, al pari di un Demetrio Stratos. Se fosse vivo, quelle canzoni sarebbero ancora più belle.
E le basi musicali?
Sono state registrate tra Berlino, Napoli e altri studi, con la formazione originale superstite: io, Antonio Spagnolo al basso e Giulio D’Ambrosio ai fiati. Insieme abbiamo scelto i brani migliori e li abbiamo arrangiati insieme. Abbiamo poi coinvolto Roberto Porta, un batterista giovane e straordinario, che ha dato un grande contributo
Il suono caratteristico del Cervello è stato preservato: è caldo e potente come negli anni 70 ma è anche moderno. “Chaire” sembra uscito allora e oggi al tempo stesso.
È prog puro, poetico, proprio quello dell’epoca. Ci sono tempi dispari, orchestrazioni complesse, ma anche quell’aria sospesa che aveva il prog italiano, che nel mondo è sempre stato un linguaggio riconosciuto. Infatti stiamo ricevendo tantissime richieste da Svezia, Giappone, Germania, Inghilterra, Stati Uniti...
L’album si apre con “Chaire – Hallo” e si chiude con “Chaire – Farewell”, due estremi di un arco narrativo che racchiude tutto: memoria, amicizia, spiritualità
Il titolo “Chaire” lo ha suggerito Antonio, il bassista: in greco significa “ciao”, “come stai” o “arrivederci”. Ci piaceva l’idea di un saluto ai fan. Il primo e l’ultimo brano si aprono e si chiudono con un parlato di Gianluigi, tratto da una poesia che mi aveva mandato quando vivevo in America: una sorta di lettera d’amore fraterna. L’ho orchestrata, facendone un benvenuto e un congedo. È un modo per chiudere il cerchio.
Da dove viene la fascinazione per la cultura ellenica che caratterizzava “Melos” e ora caratterizza anche “Chaire”?
Quando formammo il gruppo Gianluigi frequentava il liceo classico, amava la parola, la lingua alta e colta. Quindi è venuto fuori con questa idea di “Melos” - "canto", "melodia" o "musica". Credeva — e anch’io lo credo ancora — che la musica potesse essere arte, un contributo alla cultura. Non volevamo parlare d’amore o di cose adolescenziali: cercavamo un linguaggio simbolico, che aprisse mondi.
A “Chaire” è allegato uno straordinario documento d’epoca: una registrazione dal vivo del Cervello a Pomigliano d’Arco, nel 1973.
Quel concerto fu registrato dalla consolle mentre eravamo co-headliner con Il Rovescio della Medaglia. Niente soundcheck, niente preparazione. Siamo saliti sul palco così, alla cieca. Il nostro fonico era un mio vecchio compagno di scuola del liceo artistico: improvvisato, ovviamente, ma registrò tutta la serata. Negli anni ’80, però, fece un errore. Parlò di questa registrazione con un tipo, grande fan del Cervello, che gli chiese di poterla ascoltare. Gli diede la cassetta e quello se la copiò, la mise online e cominciò perfino a venderla. Ho documenti che mostrano che vendeva copie per 6.000 euro l’una! Cose assurde. Così ho deciso di far uscire una versione ufficiale, prima di tutto per migliorare il suono e poi per togliergli la possibilità di guadagnare su materiale che non gli appartiene. Con l’aiuto di Sabino Cannone abbiamo riaggiustato tutto a livello sonoro, facendo un lavoro incredibile. Ci piaceva anche l’idea di restituire ai fan l’unica vera registrazione dal vivo del Cervello, proprio perché è collocata tra “Melos” e “”, nel periodo di transizione: un ponte, una porta d’entrata perfetta.
Strano poi vedere un disco prog pubblicato da un colosso come Sony Music .
È stata una loro decisione, che a me ha fatto piacere. Perché “Melos” è stato ristampato tantissime volte: ci sono ben diciannove ristampe di quell’album, pubblicate negli anni. E ti racconto un episodio un po’ spiacevole che riguarda proprio “Melos”: quando lo registrammo, io avevo sedici anni e Gianluigi diciassette. Eravamo minorenni, quindi non potevamo iscriverci alla SIAE. Per permettere l’uscita del disco, la Ricordi ci propose di usare dei prestanome per il deposito dei brani. E così facemmo. Il problema è che questi prestanome, per cinquant’anni, hanno continuato a percepire i diritti d’autore. Ecco, quello è un sassolino che mi è rimasto nella scarpa. Non so quante copie siano state vendute esattamente, ma diciannove ristampe in tutto il mondo sono tante. Va bene, dico: per cinque o dieci anni passi, ma poi, da persone oneste, avrebbero dovuto dire «Ok ragazzi, riprendetevi il vostro lavoro, la vostra musica». Abbiamo anche cercato di contattarli attraverso avvocati, ma non c’è mai stata comunicazione. Uno dei due è venuto a mancare, l’altro è introvabile. L’album, comunque, ha avuto il suo successo. La Ricordi è stata poi assorbita proprio da Sony e credo che, nel momento in cui è stato proposto di pubblicare il nuovo album, abbiano fatto una ricerca e si siano resi conto che, commercialmente, sempre nella nicchia del prog — non parliamo certo di classifiche — l’investimento valeva la pena.
Nel rievocare la storia dei Cervello, non può mancare un accenno al vostro aspetto scenico e visionario
In concerto io indossavo un elmo, Gianluigi invece una tunica greca. Ricordo che partecipammo a un Festival della canzone popolare di Venezia, nel ’73, l’unica volta in Rai come gruppo. Il regista, appena ci vide, s’infuriò: «Toglietevi quegli elmi e quelle tuniche! Sembrate delle battone! Se domani vi ripresentate così, vi caccio via dal palco!». (Ride) Situazioni assurde. Ma noi continuammo a farlo, ci eravamo affezionati all’idea.
Come mai vi scioglieste?
Principalmente mancarono le risorse economiche per continuare. Ma la cosa più importante fu che cominciò a nascere un dissenso sulla direzione musicale. Io volevo mantenere la linea senza tastiere, perché mi entusiasmava quell’essenzialità. Alcuni invece volevano chiamare un altro elemento, e a me non piaceva: non amavo il mellotron, e avevo paura che saremmo diventati uguali agli altri. Lì si creò la frattura più importante. A quel punto preferii fare altre cose, formai i Nova con mio fratello Danilo e con Elio D'Anna, che militavano negli Osanna, e mi trasferii in Inghilterra.
La tua esperienza si intreccia con la memoria di una stagione irripetibile: la Napoli musicale dei Settanta, laboratorio di talenti e contaminazioni
Eravamo tutti nello stesso giro. Ci vedevamo praticamente ogni sera al Vomero, tra Piazza Medaglie d’Oro e Piazza Vanvitelli: il Cervello, Pino Daniele, Rosario Jermano, Tony Esposito, Enzo Avitabile, gli Osanna. Parlavamo di musica e poi andavamo nella sala prove di Pino, dove si suonava fino alle due del mattino.
Un clima da cui nacque il cosiddetto Neapolitan Power.
C’era una grande comunità di musicisti che si aiutavano, si ispiravano e si sfidavano a vicenda. Ognuno era anche un po’ geloso dell’altro, certo, ma era anche una spinta. C’era una forte competizione, ognuno cercava di fare sempre meglio. Una delle ultime volte che ho visto Pino Daniele è stato a Ischia, un’estate, proprio il giorno prima che partissi per gli Stati Uniti. Mi chiamò, ci sedemmo sugli scogli con una bottiglia di vino e parlammo a lungo. Era curioso, mi chiedeva com’erano gli americani, la musica, l’ambiente. Anni dopo ci rincontrammo: voleva che facessimo un disco insieme, due chitarre. Ma poi, purtroppo, non successe.
Dopo tutte le tue esperienze in ambito pop, cosa provi oggi a tornare al prog?
In verità non l’ho mai lasciato. Continuo a seguirlo, a scrivere tantissime cose di generi diversi, perché mi piace, e anche perché mi annoio facilmente. Tutto quello che sappiamo è già il passato, e a me il passato non interessa. Mi interessa saltare nel vuoto, capire cosa mi rende scomodo, scoprire cos’altro c’è da imparare. Ho avuto una grande fortuna: la vita mi ha regalato molto, forse perché non ho mai tradito il concetto originario. Non ho mai fatto musica per guadagnare, ma mi è tornato indietro qualcosa di più prezioso della fama — la libertà. La libertà di poter fare quello che voglio, senza pressioni di mercato, senza condizionamenti economici. So che è uno stato di grazia, e ne sono profondamente grato. Non lo do per scontato: lo riconosco, lo accolgo, e cerco di restituirlo con cose che abbiano un senso, che valgano la pena di essere ascoltate. Magari non da tutti, ma da chi può sentire quella vibrazione. Tutti i progetti che faccio, e che continuo a portare avanti, nascono da questa intenzione, da questo desiderio. È tutto legato alla mia ricerca — non so se chiamarla spirituale, forse è più personale, una ricerca di scoperta, di coerenza. Perché se cerchi davvero, devi per forza essere coerente in ciò che fai.
Pensi che oggi come oggi dei giovani musicisti potrebbero operare con l'ampia veduta che ti ha caratterizzato, dagli anni '70 a oggi?
Non credo sia possibile, in questo momento storico, porsi nella stessa maniera in cui ci siamo posti noi. Allora c’era un clima globale di speranza, un “andiamo a cambiare il mondo”, e in parte i boomers quel cambiamento lo hanno davvero realizzato. Molte di quelle conquiste vengono però rinnegate, cancellate. Il concetto stesso di democrazia, di classe media, di libertà d’espressione, di onestà e di virtù individuale sembra essersi dissolto. Siamo immersi in una sorta di risacca postmoderna che ci arriva alle caviglie: la profondità è scomparsa, resta solo l’apparenza. Ovviamente esistono ancora persone che cercano di aprirsi, di farsi domande, di vivere e operare nel mondo con consapevolezza, cercando di fare le cose giuste, fatte bene. Ma non ho molte speranze che, in questo momento, possa emergere qualcuno capace di dire qualcosa di veramente significativo attraverso la musica. Certo, tutto cambia, tutto si rigenera. Solo che oggi faccio fatica a trovare un filo che colleghi questo ciclo alla realtà contemporanea. È tutto ridotto a intrattenimento, ed è quello che la gente vuole. Non si cerca più nella musica un punto di riflessione: non ci si siede a un concerto per ascoltare e pensare, ma per divertirsi, o peggio ancora per farsi un selfie e mostrare che si è lì.
Da questo punto di vista, una voce autorevole come la tua – che non è quella di un artista di nicchia, ma di qualcuno che ha attraversato i generi e conosciuto il successo – ha ancora un peso importante.
Non lo so. Io cerco solo di fare come ho sempre fatto: seguire la voce interiore che mi guida. Ricordo una cosa che mi disse Carlos Santana, appena ci conoscemmo: «L’intenzione che sta dietro a qualunque azione è la cosa più importante.» Ed è vero. Avere aspettative sul risultato delle proprie azioni è un disastro: non si può lavorare sperando in un certo esito, o cercando conferme. Ma partire con la giusta intenzione, quella sì, porta sempre a risultati utili.