Un disco carico di inquietudine e verità, tra barre affilate e immagini distopiche. Un atto d’amore verso il rap e una denuncia contro la deriva estetica che soffoca la scena, ma anche un dito puntato verso se stesso. Nitro con “Incubi”, uscito a distanza di due anni da “Outsider”, non risparmia nessuno e come “Travis Barker” in “Taxi Driver” si punta anche la pistola alla testa guardandosi allo specchio. Il progetto è psichedelico, ricco di sonorità differenti, dal sapore underground, e con ospiti Silent Bob, Sally Cruz, 22simba, Niky Savage, Madman, Nerone, Tormento e Salmo. “Finiti i sogni, ho realizzato gli incubi” non è solo la chiusura della strofa di “Storia di un artista”, ma anche l’inizio di un’indagine su una scalata tra successo e vuoto.
Le origini di questo progetto?
Diciamo che è nato da un periodo di cambiamento radicale, anche personale. È il mio lavoro più psichedelico ed è partito quando ho iniziato a cercare altro. Ha influenzato tantissimo il fatto che, due anni fa, mi sono comprato un camper e ho iniziato a scappare quando ne sentivo il bisogno. Praticamente tre quarti del disco l’ho scritto sul camper, davanti a un lago. Ho iniziato a scrivere “Scappa”, che secondo me anticipa molto quello che è successo: è un po’ una fuga da se stessi, ma non per cancellare ciò che si è stati, bensì per guardarsi da fuori e capire meglio come affrontare i prossimi passi con più consapevolezza. Quindi ecco, sono fuggito un po’ da me stesso, mi sono perso per ritrovarmi.
Gli “Incubi” sono anche una forma di risveglio da una realtà anestetizzata?
Sì, una forma di terapia d’urto, potrebbe essere il termine giusto. Nel senso che, a volte, scrivo a tinte forti, ma non lo faccio con l’intento di scioccare. Non è provocazione fine a se stessa: è piuttosto un modo per stimolare lo spirito critico, per instillare dei dubbi, per far nascere delle domande. Per far mettere in discussione anche le certezze. Non mi è mai piaciuto il concetto di “ordine imposto”. Mi interessa di più il caos, il ribaltamento delle cose. E questo disco, secondo me, riflette molto il mio modo di pensare.
In “Storia di un artista” ti apri come un libro: parli di alcolismo, terapia e depressione, senza risparmiarti.
Secondo me questo approccio la mia generazione lo deve molto a Eminem. È un po’ la tattica di “8 Mile”, nell’ultima sfida: mi insulto così tanto che alla fine non puoi più dirmi niente, perché nessuno sa essere più cattivo con me di quanto lo sia io stesso. Per me è un modo per esorcizzare le cose che mi fanno male. È come quando confidi un segreto che ti opprime a un amico: anche se rischi che cambi il modo in cui ti guarda, dirglielo è liberatorio, ti toglie un peso. Per me scrivere sul foglio è questo: dire le cose, metterle fuori. In quella traccia posso dire “ho calato le difese”. Ora quelle cose le sanno tutti. E questo, per me, è un punto di partenza: il riconoscimento del problema è sempre il primo passo per risolverlo.
Hai riflettuto sul farlo o meno?
Quando sei emergente hai delle battaglie da vincere. Quando poi cresci e alle persone per cui “sei a posto, stai bene” etc devi far capire che magari non è proprio così, non è semplice. Molti artisti che hanno costruito la loro credibilità sull’essere infallibili crollerebbero di fronte a un’apertura del genere, mentre io cerco di renderla il mio punto di forza.
Le canzoni secondo te dovrebbero avere un destinatario?
Più che pensare a chi scrivo, penso per quale momento scrivo. Magari penso: questa canzone deve arrivare a una persona che la mattina, aspettando l’autobus per andare a scuola, si deve caricare o arrabbiare. Oppure deve parlare a chi ha cambiato città e si ritrova a ripensare al proprio paese di provincia, da cui è dovuto andare via. Penso molto ai momenti, perché le canzoni sono attimi più che lettere dedicate a qualcuno. Spesso un pezzo non ti colpisce perché non hai vissuto ancora quel momento, ma quando poi lo vivi, e la riascolti, ti si appiccica addosso. Ecco, ho iniziato a riflettere sulle canzoni come momenti, non come lettere aperte a qualcuno.
Il disco è musicalmente molto vario: come hai lavorato?
Dal punto di vista sonoro ho fatto musica dicendomi: “ogni giorno faccio quello che mi ispira”. Perché in passato, anche nei dischi precedenti, a volte cercavo di forzare i pezzi, tipo: “devo chiudere quel brano lì, che parla di quella roba lì”. E così diventava quasi un lavoro meccanico. Per questo disco, invece, ho iniziato subito a lavorare, appena è uscito “Outsider”. Mi sono preso più tempo. Ho fatto musica facendo, ogni giorno, quello che mi andava. Mi sono ascoltato i Korn per due settimane, per esempio, ed è venuto fuori “Elon Musk”, un pezzo a cui tengo particolarmente.
Come si arriva a scegliere?
Sono usciti sessanta, settanta pezzi, poi ho iniziato a scremare. Ho messo da parte tante cose per il futuro, altre le ho lasciate fuori perché non era il momento giusto. Diciamo che ho acquisito una consapevolezza più grande: non sento più il bisogno di dire tutto in un solo disco. Perché se in ogni progetto devi dire tutto, poi nel prossimo non hai più niente da dire.
Ci sono diverse barre anche contro l’ossessione per i numeri.
Ci sono dischi che vendono poco all’inizio, ma dopo anni cambiano la cultura. Oppure dischi che non vendono centomila copie la prima settimana, ma restano in classifica per sei anni. E allora, come li valutiamo quei numeri? Non possiamo dire che valgano meno.
E dei tuoi pezzi di successo cosa pensi?
Il pezzo che mi fa fare più streaming in un disco non è un pezzo da ripetere: è il cavallo di Troia, quello che apre la porta al pubblico di massa, per farlo arrivare anche agli altri brani che magari non sono pensati per quel tipo pubblico. Il fatto che un pezzo come “Pleasantville” mi permetta poi di far ascoltare a chi arriva da lì “Suicidol”, con strofe da quaranta, sessanta barre, senza ritornello, per me è un traguardo.
Quindi dove ti collochi?
Il mio obiettivo è avere numeri da mainstream, ma restare, paradossalmente, un rapper molto underground. Non mi piego alle regole dei ritornelli facili o dei linguaggi standard. Farlo così, a modo mio, è gratificante. Se invece per essere “numero uno” devo diventare come gli altri, o diventare quello che gli altri vogliono, allora non sono più il numero uno: perché ho dovuto rinunciare a me stesso per esserlo.
Il cavallo di Troia di “Incubi”?
Direi che un cavallo di Troia è il pezzo con Salmo e Sally Cruz (Della morte dell'amore, ndr), oppure “Senza te”. È un brano molto “funny”, quasi estivo, ed è nato così, in un pomeriggio. Non era pensato come singolo, ma lo è diventato. Ero in studio, quella settimana ascoltavo un sacco i Bloodhound Gang. Da piccolo mi piacevano da morire, perché mischiavano i generi: ogni disco aveva tre o quattro sonorità diverse, passavano dall’elettronica al punk. Mi piaceva anche tantissimo l’impostazione vocale del cantante: sembra quasi un telecronista. “Senza te” parla di una cosa brutta, ma con frasi leggere. Quando dici una cosa triste col sorriso fa ancora più paura.
I pezzi che speri vengano ascoltati?
“Vipere”, “Elon Musk”, “Limousine”, “Tempo”. Brani più sperimentali, o che si distaccano dal “suono tipico” di Nitro, ma che comunque trasmettono un messaggio forte. Perché anche dove non c’è Nitro a livello sonoro, c’è Nitro al cento per cento a livello testuale.
“Incubi” parla anche di amore per se stessi. L’unico modo per fare pace con sé è accettarsi?
Assolutamente. E secondo me questo è evidente anche nella copertina, che è molto simbolica. Ho usato una collina perché, come ho raccontato, è un riferimento ai Cypress Hill. Per me rappresenta un po’ la mia scalata, il percorso che ho fatto dall’inizio. In cima c’è un albero, che rappresenta la vita, il raggiungimento, la meta, ma anche il riposo dopo la fatica: quel momento in cui ti fermi e puoi finalmente guardarti indietro. La collina però è disseminata di occhi, perché la mia scalata non è stata una scalata solitaria: è stata osservata da tutti. Ma la riconciliazione, in copertina, c’è: il panorama sembra un incubo, ma la mia posizione non lo è. Io non sono turbato, sono sdraiato, sereno, sognante. Questo rappresenta bene il messaggio: non bisogna odiare i propri lati oscuri o odiarsi per averli, ma accettarli e provare a smussarli, a renderli costruttivi invece che distruttivi.
In “Odio il rap” dici che se il rap in questo momento non brilla è “anche per colpa nostra”. Punti il dito verso te stesso?
Secondo me non c’è uomo più uomo di chi ha il coraggio di dire “scusa” e “grazie”. Saper ammettere i propri errori dà anche più valore a quando poi dici le tue verità, almeno per come la vedo io. Quindi sì, è giusto fare un mea culpa. Mi sono chiesto: la mia ascesa nella scena è stata davvero una questione di aiutare gli altri, di far parte di una cultura in cui ognuno può avere il suo momento per brillare? Oppure mi sono fatto ingabbiare dal mio ego, volendo essere sempre e solo io al centro dell’attenzione? Questa è una domanda che molti artisti dovrebbero porsi. A volte appoggi un rapper non perché lo ritieni davvero forte, ma perché ti conviene. Un altro grande errore è stato giudicare i ragazzi più giovani invece di provare a capirli. Invece di chiedere “perché fai così?”, “perché non rispetti questa regola?”, avremmo dovuto incuriosirci, dialogare, non giudicare a distanza.
Ti riferisci alla generazione 2016?
Io la “generazione trap” la capisco benissimo. Noi siamo arrivati a un punto di esasperazione tecnica, dove nel picco c’eravamo io, Salmo, Gemitaiz, MadMan, Nayt, e altri: tutti “pro-rapper”, come li chiamano in America, cioè funamboli della parola, della metrica. Una volta raggiunto quell’estremo, i nuovi rapper per sconvolgere dovevano rompere quel sistema, perché se avessero provato a fare quello che facevamo noi, non avrebbero potuto superarlo. Quindi li capisco: hanno dovuto cambiare le regole per esistere. Il problema è che, se ci fosse stato più dialogo intergenerazionale, invece di divisioni e giudizi, oggi non ci sarebbe questa aria di crisi dove tutto è polarizzato, dove esistono solo due fazioni: o fai il rap “così” o fai il rap “cosà”. Ma la verità è che io voglio fare tutto. Sono una persona che si è guadagnata il proprio posto e che ama davvero questa cultura. Non faccio appropriazione culturale: se voglio fare un pezzo reggaeton, chiedo a un artista reggaeton di consigliarmi i suoi dischi preferiti, mi studio quella cultura, cerco di capirla e di capire che contributo posso dare. Non la uso come una maglietta da mettere oggi e togliere domani.
Come concludere?
Che se avessimo trattato tutto questo più come una cultura e meno come un “usa e getta”, oggi non ci troveremmo in questo piattume dove ci stupiamo se un artista come me dice cose che, in realtà, pensano tutti. Non ho detto niente di rivoluzionario, sono pensieri comuni, solo che nessuno ha il coraggio di dirli. E quando un pezzo del genere “fa scalpore”, significa due cose: che io ho avuto il coraggio di esporli, ma anche che c’è un problema di sistema, perché tutti gli altri non lo fanno.