Li ha cresciuti proprio tutti, Neil Young. Kurt Cobain, Eddie Vedder, Tom Petty, David Bowie, Noel Gallagher. Persino Chris Martin. Tanti artisti, di diversi generi e generazioni, non avrebbero fatto lo stesso percorso senza “uncle Neil”, il cantastorie canadese (naturalizzato statunitense) che domani spegne 80 candeline. È dagli anni Sessanta che il suo genio matto illumina il mondo della musica come un faro – e continua a farlo ancora oggi.
Difficile riassumere in qualche riga l’immensa eredità di quella mina vagante nata a Toronto il 12 novembre 1945. Se la si dovesse descrivere con tre parole, probabilmente sarebbero sconfinata, coerente e ribelle. Dalla scena folk canadese agli amplificatori incandescenti del rock statunitense, dai palchi di Woodstock ai manifesti dell’attivismo ambientale, non c’è stata una singola volta in cui Neil Percival Young sia stato banale, fin dagli inizi con i Buffalo Springfield, che fonda a Los Angeles nel 1966 insieme a Stephen Stills e Richie Furay. La loro “For What It’s Worth” diventa un manifesto generazionale e Young si impone come autore inquieto, capace di fondere protesta e poesia.
Oltre le etichette
Nel 1968 pubblica il primo, omonimo album solista (peraltro con la casa discografica di un’amica d’eccezione, Joni Mitchell), ma è con “After the Gold Rush” (1970) e soprattutto con “Harvest” (1972) che Young diventa una voce universale. “Heart of Gold”, “Old Man” e “The Needle and the Damage Done”: inni eterni di una generazione in cerca di autenticità. In parallelo, l’esperienza con i Crosby, Stills, Nash & Young lo consacra tra i protagonisti assoluti della controcultura americana. In “Déjà Vu” (1970) firma capolavori come “Helpless” e “Ohio”; quest’ultima, scritta dopo il massacro di Kent State, resta uno degli esempi più forti di musica civile nella storia del rock.
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, Young dimostra di non poter essere confinato o etichettato: passa dal country al rock, dall’acustico più intimo all’elettrico più feroce. Con i Crazy Horse, la sua band “totem”, si diverte come un bimbo, dai tempi di “Rust Never Sleeps” (1979) a quelli di “Ragged Glory” (1990) fino a oggi. L’approccio ruvido e viscerale alla chitarra (apprezzato anche da illustri contemporanei come Jimmy Page e Johnny Rotten), i testi profondi e talvolta oscuri gli valgono il soprannome di “padrino del grunge”. Kurt Cobain dimostrò tutta la sua devozione nei confronti di Neil in quel tragico 5 aprile 1994, il giorno in cui si tolse la vita: la sua lettera di addio si conclude con la frase “it's better to burn out than to fade away”, è meglio bruciare che spegnersi lentamente. Proprio come canta il suo mito in “My My, Hey Hey”. L’omaggio sconvolge terribilmente Young che, pochi mesi dopo, dedicherà a sua volta il suo ventesimo disco (“Sleeps With Angels”) a Cobain. E a chi volesse riconoscere i Nirvana nel repertorio del maestro spirituale canadese, basta ascoltare “Danger Bird” (seconda traccia di “Zuma”, disco del 1975) per rendersi conto di quanto il sound di Young fosse pionieristico.
Impegnato, inafferrabile, inquieto
Ma parlare della carriera di Neil Young senza fare riferimento al suo impegno politico sarebbe come parlare di Eddy Merckx senza menzionare la bicicletta: al puzzle mancherebbe il suo pezzo più importante. Nel 1985 fonda con Willie Nelson e John Mellencamp il Farm Aid, festival permanente a sostegno degli agricoltori americani. Poco dopo nasce la Bridge School, dedicata ai bambini con disabilità comunicative, ispirata dai suoi due figli affetti da paralisi cerebrale. Negli ultimi decenni il suo impegno si è esteso alla sostenibilità ambientale, alla critica dell’industria discografica e tecnologica, fino al progetto dell’auto elettrica “LincVolt” e alla battaglia per la qualità del suono digitale. Il motto è semplice: essere artista significa prendersi delle responsabilità.
Neil Young non è mai stato dove il pubblico si aspettava di trovarlo. Dopo l’acustico, il rock. Dopo il successo, l’esperimento. L’elettronica, il rockabilly, il country tradizionale. Il filo rosso è sempre la sincerità più pura, la voce fragile, la chitarra passionale, l’urgenza di comunicare. È questa autenticità a renderlo, ancora oggi, un punto di riferimento per chi crede che la musica possa cambiare qualcosa. “Il mondo è diviso in due: quelli che amano Neil Young e quelli a cui non piace. E quelli a cui non piace sono degli idioti del cazzo”, dice Noel Gallagher. Come dargli torto. Rock and roll can never die.