La chitarra e il maglione verde oliva di Kurt Cobain nel famoso MTV Unplugged sono esposti insieme per la prima volta in Europa, al prestigioso Royal College of Music Museum di Londra, in una mostra ideata dal curatore italiano Gabriele Rossi Rognoni con il giornalista newyorkese Alan Di Perna, chiusura il 18 novembre, data simbolica in memoria dello speciale acustico registrato il 18 novembre 1993. Intanto nelle aule si tengono seminari sui Nirvana e non è poco, considerato il prestigio dell’istituzione, che per la prima volta si apre a una mostra rock, proprio nelle sale in cui è conservata la più antica chitarra esistente, datata 1581. C’è anche l’occasione di vincere il plettro originale di Cobain, uno dei tre Dunlop trovati nella custodia della sua Martin. Per 5 sterline si partecipa al concorso sul sito, i proventi andranno al fondo per gli studenti.
Chitarra e maglione sono due oggetti da record. La Martin D-18E Kurt Cobain l’aveva comprata al Voltage Guitar di Los Angeles e, non sapendolo, si era portato a casa una rarità. Era una delle circa 302 prodotte dalla Martin tra il 1958 e il 1959, un’acustica elettrificata di scarso successo, poi adattata per lui che era mancino. Diventò fra le chitarre più ricercate solo dopo l’esibizione a MTV, e soprattutto dopo che il suo corpo fu trovato senza vita, l’8 aprile 1994, e l’emittente mandò la performance a ripetizione, quasi fosse una veglia collettiva per elaborare il lutto. Non una chitarra qualsiasi, dunque. Cobain la teneva in casa, ci si esercitava, la usava per comporre e in tour. Andò in eredità alla figlia Frances Bean, che la regalò a suo marito Isaiah Shiva. Al divorzio seguì una lunga battaglia giudiziaria per recuperarla. Battaglia persa. Fu mandata all’asta nel 2020 e comprata dall’australiano Peter Freeman per oltre sei milioni di dollari, cifra finora imbattuta. Anche il cardigan verde è il più costoso mai finito all’asta, venduto per 334.000 dollari nel 2019, acquistato dal collezionista Garrett Kletjian che, per proteggerlo, rinunciò perfino all’offerta del Louvre. Cobain comprò il cardigan, al solito, in un negozio dell’usato, e anche se dopo ha ispirato una linea di lusso (chimata Kurtigan), in origine rappresentava l’estetica grunge, quell’idea anticonsumistica di riciclare e la rinuncia agli eccessi sartoriali delle celebrità. Il capo risale agli anni '60, gli manca un bottone, ha una macchia marrone e croccante sulla tasca, due bruciature di sigarette, odora di muffa. Da quella sera a MTV non è mai stato lavato. Courtney Love lo regalò alla tata di famiglia Jackie Farry, che lo conservò in una cassetta di sicurezza finchè non dovette venderlo per pagarsi le cure per il cancro, con l’approvazione della vedova. Queste sono le singole storie dei due oggetti (che diventeranno ancora più iconici ora che MTV rischia di chiudere definitivamente) ma poi c’è la macrostoria che li ingloba in una memorabile epifania del piccolo schermo.
Non ci volevano andare i Nirvana su MTV, avevano declinato l’invito più volte. Gli unplugged che avevano visto fino ad allora erano fasulli, di artisti che rifacevano le loro canzoni più famose in acustico, senza aggiungere niente e, peggio ancora, senza togliere niente, cioè senza rivelarsi. Cure, R.E.M., Pearl Jam però se l’erano cavata bene. Per i Nirvana poteva essere l’occasione di mostrare un lato più intimo, e per Kurt Cobain di vedersi finalmente riconosciuto come songwriter. Ci teneva moltissimo, ma doveva prima spogliare le canzoni, arrivare alla tara. Per prepararsi, avevano già provato dei numeri acustici durante il tour di “In Utero”, con la violoncellista Lori Goldston (era a dir poco inusuale mettere un violoncello in una band simile) e Pat Smear dei Germs come chitarrista aggiunto, eppure il pubblico continuava a tirare roba sul palco e a prendere la rincorsa per conficcare la testa negli amplificatori. Avrebbe funzionato un set nudo, senza distorsioni e strumenti in frantumi? I Nirvana accettarono di farlo a condizioni anti-televisive: niente “Smells Like Teen Spirit”, nessun grande successo (a parte “Come As You Are”), qualche cover non particolarmente famosa, e per ospiti i Meat Puppets. «Chi diavolo sono?» fu la reazione dei produttori di MTV. Si aspettavano Eddie Vedder, Tori Amos, facce o voci riconoscibili, invece si ritrovavano due fratelli punk e una scaletta depotenziata. I Nirvana avevano organizzato il delitto perfetto.
Le prime prove in New Jersey erano andate male: mai riusciti a fare l’intero set. Serpeggiava la convinzione che alla fine avrebbero rinunciato. Nel frattempo, Cobain esigeva il controllo su ogni aspetto dello speciale televisivo. Visionò il bozzetto della scenografia, chiese di avere un enorme drappo rosso alle spalle e disse: «Voglio più gigli e più candele». Il produttore Alex Coletti chiese: «Come a un funerale?», Cobain rispose: «Esattamente, come un funerale». Non c’era niente di macabro in quell’indicazione, nessun tono scuro, nessun retropensiero. Era solo la sua idea di allestimento scenico. Ora, il giglio stargazer (espressamente chiesto da Kurt) fiorisce tra maggio e agosto, dove diamine trovarlo a novembre? La produzione impazzì per scovarne alcuni veri e li mischiò ad altri artificiali.
Il giorno della registrazione ai Sony Music Studios di Manhattan si presentano prima Grohl e Novoselic. Kurt non c’è, e non è escluso che non si presenti. Coletti prende coraggio e dà a Grohl un paio di spazzole per la batteria. In sospetto anticipo, le spaccia per un regalo di Natale. In realtà, spera che le usi al posto delle bacchette per ammorbidire il suono. Miracolosamente, Grohl non lo azzanna. Cobain arriva più tardi, senza Courtney Love e bevendo una tazza di tè. Da tempo non sta bene. Prima l’overdose, poi le crisi di astinenza. Ha un mastino che gli morde lo stomaco. Dorme poco e male. Indossa scarpe da ginnastica, quel cardigan olivastro, una maglietta delle punk femministe Frightwig. Non scherza, non sorride, desta un po’ di preoccupazione. Sostituisce lo sgabello da bar con una normale sedia. Se la va a prendere da solo in ufficio. Il nervosismo si tocca perché i Nirvana stavolta sono esposti fino all’osso. Provano i brani, non funzionano, vanno avanti senza risolvere i problemi che incontrano. Kurt è a disagio, durante le prove chiede che in prima fila si siedano persone che conosce perché, dice: «odio gli estranei». Insiste che vuole far passare la chitarra Martin D-18E nell’amplificatore Fender Twin Reverb, ed è un bel problema per Coletti, perché quello è un format preciso, unplugged appunto, e va rispettato, almeno all’apparenza. Allora Coletti s’inventa un modo per salvare capra e cavoli: crea un contenitore per l’amplificatore così che sembri una normale spia da palco. Intanto c’è chi innaffia i fiori veri e finti, chi sparge la sabbia a terra, semmai cadessero le candele accese.
L’atmosfera dopo il soundcheck resta tesa. La produzione pressa per aggiungere le hit in scaletta ma i Nirvana sono irremovibili, sebbene quasi sicuri che andrà tutto male. Prima di iniziare il live, Cobain va a fare un giro dell’isolato per rompere il ghiaccio con chi lo aspetta fuori. Alle 20.30 entra il pubblico in sala, le sedie avanti vanno ai membri del fan club. Alle 21 l’attacco è su “About A Girl”. In un secondo, le incertezze svaniscono. È subito chiaro che sta accadendo qualcosa di irripetibile. A differenza di tutti gli artisti prima di loro, i Nirvana fanno un’unica ripresa, un’ora filata, con almeno tre momenti chiave. Il primo: Kurt garantisce che con la sua versione rovinerà “The Man Who Sold the World” e invece, da quel momento in poi, chi la sentirà fatta da David Bowie penserà che sia una cover dei Nirvana. Il secondo: a sorpresa Kurt decide di fare “Pennyroyal Tea” da solo, cade dentro a un testo lancinante, a un certo punto si ferma, sembra non ce la faccia a proseguire, si riprende, la porta a compimento. Tutti, in fondo, sperano faccia lo stesso con la sua vita. Il terzo: i Nirvana ignorano le richieste della platea e chiudono con “Where Did You Sleep Last Night”, un blues della tradizione in stile Lead Belly, «il mio performer preferito» ammette Kurt. In studio non vola una mosca. La canzone sembra sua, la conduce come una sposa, a palpebre chiuse, poi strozza un ululato, fa un sospiro che sembra un’esalazione, spalanca gli occhi azzurri come se avesse visto qualcosa di orribile. La sospensione viene rotta dagli applausi. Coletti va dietro le quinte per convincerlo a fare il bis. Kurt risponde: «No, non potrei eguagliare l’ultima canzone». E aveva ragione. Era andato oltre la pelle, offrendo il massimo della sua verità.
L’unplugged andò in onda il 16 dicembre 1983. Poi la spina Kurt la staccò davvero e quel live fu mandato a loop, per giorni. È lì che assunse un altro significato: la sua elegia in diretta, il suo requiem, l’ultima volta che abbiamo sentito la sua voce viva, l’ultima volta che le sue dita hanno toccato quelle corde. Lui lo sapeva, sapeva già tutto, era il suo addio. Ma chi in seguito ha visto la versione integrale dello show in DVD, non editata, ha scoperto che non era stato tutto così disperato e serio. Tra un brano e l’altro Cobain aveva scherzato, aveva più volte riso. Allora, forse, in quel momento non stava cantando la sua fine. Anzi, forse immaginava un nuovo inizio. Molti suoi stretti collaboratori pensano che se non fosse morto, il successivo disco sarebbe stato più simile all’MTV Unplugged che a “Nevermind”.