Rap, violenza, educazione e misoginia: parola agli esperti
Dopo settimane di opinionismo dilagante e spesso superfluo, sull’onda dell’ultimo caso di cronaca con cui si sono riaccese riflessioni sul rapporto musica rap, misoginia e violenza, abbiamo voluto prenderci il giusto tempo per approfondire, dando parola a degli esperti in modo da contribuire al dibattito con qualche cosa di concreto. Abbiamo intervistato Paola Biffi e Lorenzo Carminati, educatori professionisti dell’associazione 232 su questi temi complessi. L’associazione di promozione sociale 232 nasce nel 2019 con l’obiettivo di promuovere percorsi artistici ed educativi rivolti a minori e giovani adulti attraverso il canale della musica rap. L’equipe di lavoro composta da educatrici ed educatori, psicologi, pedagogisti e l’esperienza maturata attraverso i laboratori nell’istituto penale per minori “Cesare Beccaria”, nella casa circondariale “San Vittore”, nelle comunità penali, Kayros e Le 3 fontane, nei progetti che si realizzano nelle scuole, ha permesso la costruzione di percorsi sempre più professionali, con un’attenzione particolare ai soggetti in difficoltà.
In che modo la psiche dei giovani è influenzata dalla musica? Quali sono i meccanismi psicologici che si attivano e che ci spingono a preferire un genere piuttosto che un altro?
Paola Biffi: Quando ascoltiamo un brano, di qualsiasi genere, il cervello si attiva in diverse direzioni e dimensioni, si accendono le sfere emotive, viene rilasciata dopamina: la musica vibra, in modo letterale e figurato, all’interno del corpo e della mente e, soprattutto in alcune fasi della vita, risponde e aiuta a rispondere a diversi bisogni. I “compiti di sviluppo”, come li definiscono Emanuela Confalonieri e Ilaria Grazzani Gavazzi, sono “ambiti in cui la persona è condotta a impegnarsi in modo particolare al fine di raggiungere quelle competenze (cognitive, affettive, relazionali) che le consentono di superare la fase che sta vivendo avviandosi in quella successiva”; in età adolescenziale, le ragazze e i ragazzi sono chiamati a costruirsi una propria identità, a scegliere che persone essere e diventare.
Il ruolo della musica?
Paola Biffi: In questa difficile fase, la musica è come una compagna di banco, pronta a passare di nascosto le soluzioni dell’esercizio che non si riesce a completare: identificarsi in un genere musicale, condividerne i valori, lo stile, risponde al bisogno di trovare un gruppo di appartenenza, costruire relazioni amicali stabili con cui condividere esperienze, dubbi, emozioni che sembrano ai più indecifrabili. I primi grandi amori, le prime grandi delusioni, il difficile rapporto con il proprio corpo in cambiamento, la rabbia verso la cultura adulta dominante, sono tutte emozioni mai sperimentate prima, e ascoltare la musica attiva i processi cognitivi che servono per elaborarle: il ritmo, incalzante o lento, leggero o caotico di una canzone permette di comprendere le proprie emozioni attraverso il corpo, i testi raccontano di esperienze simili alle proprie e aiutano a trovare altre soluzioni, altri punti di vista, lo stile, le immagini dei video e degli artisti preferiti sono un punto di riferimento e di ispirazione per creare e proporre la propria immagine all’esterno.
Il rap è considerato un valido strumento pedagogico, eppure spesso parla di argomenti diseducativi e con linguaggio non certo inclusivo. Come si spiega questa apparente contraddizione?
Paola Biffi: “Peace, Love, Unity and Have Fun” era lo slogan della Universal Zulu Nation, fondata nel 1973 da Bambaataa, un’organizzazione che aveva l'obiettivo di usare la cultura hip hop per trasformare i giovani delle gang in una forza positiva. Il rap è considerato uno strumento pedagogico perché è stato, fin dalle origini, utilizzato, seppur inconsapevolmente, dai giovani come strumento di trasformazione, tanto delle proprie storie quanto dei contesti che abitavano. Il potenziale educativo risiede quindi nel processo di rielaborazione che l’hip hop innesca in chi lo ascolta o lo fa: nelle mani dei professionisti delle relazioni d’aiuto, può diventare in questo senso uno strumento potentissimo, perché è un metodo di espressione, diretta e senza filtri, di ciò che i giovani pensano e vivono, parla un linguaggio a loro molto vicino, crea dinamiche e relazioni forti e generative. Questo accade ed è accaduto anche nei contesti dove la pedagogia non è esplicita e strutturata, come il Muretto a Milano, il Teatro Regio a Torino, le posse e le crew di writers nate nei centri sociali, ci sono moltissimi esempi di come il rap sia stato fondamentale nella crescita e nella trasformazione, in positivo, di chi lo praticava.
Voi, nel vostro ruolo, come vi siete rapportati?
Paola Biffi: Noi per primi, che oggi siamo educatori, psicologi e pedagogisti professionali, ci siamo avvicinati alla teoria partendo dalla pratica diretta, dal vivere la cultura hip hop ancora prima di insegnarla. La contraddizione quindi non sta tanto nel valore pedagogico del genere, quanto piuttosto nel contenuto: nasce dal fatto che molta parte del rap mainstream mette in primo piano temi ad alto impatto emotivo come sesso, violenza, status economico: è facile soffermarsi sulla superficie provocatoria e non vederne la parte trasformativa. Le major, come ogni industria culturale, tendono a privilegiare ciò che garantisce visibilità e mercato, questo rischia di oscurare la dimensione politica, sociale e comunitaria che rimane però la radice profonda dell’hip hop.
Chi ascolta rap potrebbe essere più portato a commettere reati o ad avere comportamenti antisociali?
Paola Biffi: Per quanto scritto anche nella risposta alla domanda precedente, più che un pericolo la musica rap può essere un importante strumento, sia per chi la fa sia per chi la ascolta, per decostruire e rielaborare dei vissuti, reali e psicologici, violenti. Ho seguito personalmente dei laboratori di scrittura rap presso la Casa Circondariale di Monza, il gruppo di partecipanti al laboratorio è un gruppo misto composto da detenuti e studenti dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, che si trovano a confrontarsi e condividere esperienze di vita a volte simili, a volte molto diverse, attraverso il canale dell’hip hop.
Una conclusione?
Paola Biffi: Chi proviene da un ambiente deviante, antisociale, non commette reati perché ascolta la musica rap, e di certo non tutti i detenuti ascoltano questo genere: al contrario, per chi ha realmente vissuto le esperienze e le emozioni raccontate nei testi, ascoltarle in una diversa narrazione crea una sorta di senso di appartenenza, ma aiuta anche a creare il distacco e l’oggettivazione necessaria per rielaborare il proprio vissuto e trasformare il significato che fino ad allora si era dato all’agito criminale. Per giovani, studenti, ragazzini che non hanno avuto quelle esperienze e non hanno vissuto quegli ambienti, sicuramente ascoltare rap risponde a una fascinazione verso il contrasto con i valori tradizionali, con le figure di riferimento, risponde al movimento provocatorio che l’adolescente, per la fase della crescita in cui è, ricerca, ma lo fa appunto attraverso la musica, attraverso le vibrazioni e le parole forti dei loro rapper preferiti, e anche in questo senso il rap più che un pericolo può essere un antidoto a comportamenti realmente devianti e ad agiti violenti.
Il rap viene utilizzato anche nelle carceri come strumento educativo, e spesso i testi di chi ha un percorso penale alle spalle parlano del loro vissuto. Come si distingue l'autocelebrazione musicale (ego trip) dall'esaltazione della violenza?
Lorenzo Carminati: Forse tra le due la linea di confine è molto più sottile e labile di quello che può sembrare e probabilmente la differenza e la possibilità di crescita stanno nell’elaborazione personale di ciò che si è vissuto. Mi spiego meglio: in contesti con vissuti così estremi, il circolo vizioso, in cui auto celebrazione ed esaltazione della violenza permeano ogni singolo momento di vita e sono completamente normalizzati, è piuttosto normale che questo circolo si alimenti automaticamente e porti a una concezione di sé e dei propri agiti traviata e deviante. È fondamentale, quindi, riuscire ad aprirsi a un dialogo concreto e sincero. Per uscire da questo loop, infatti, risulta importantissimo riuscire a sviluppare pensiero critico e nuove prospettive che garantiscano la possibilità sia di riscattarsi che di individuare le proprie complessità.
Spesso il rap viene considerato un blocco unico, in realtà è composto da tanti artisti e modi di scrivere diversi. Quali sono i nomi che fate ascoltare maggiormente?
Lorenzo Carminati: In realtà, non abbiamo degli ascolti mandatori e fondamentali, basiamo ogni intervento su ciò che può piacere alle persone che incontriamo e partiamo letteralmente dai loro gusti musicali chiedendo loro, durante il primo incontro, una playlist di brani preferiti; ci piace portare ai ragazzi brani che possano connetterci a livello di gusti e che permettano di aumentare un po’ le conoscenze (di entrambi) in una cultura così vasta e sfaccettata.
Come si sviluppano le attività?
Lorenzo Carminati: In alcune attività partiamo da esercizi di scrittura mirata allo sviluppo di abilità specifiche, quindi l’attività si svolge partendo dall’ascolto di un brano in cui viene portato quel determinato approccio, ne studiamo le caratteristiche e proviamo a riprodurlo (ad esempio, Gemitaiz quando si vuole provare a scrivere un extrabeat; Marracash per i brani a tema; Coez per le melodie nei ritornelli, ecc). In altre attività, invece, è necessario che il brano abbia delle caratteristiche narrative precise e allora attingiamo da un altro registro (ad esempio, per introdurre un’attivazione di dibattito in tre parti, in stile tribunale, facciamo ascoltare “Storia di Gino” di Murubutu oppure “Il fattaccio del vicolo del Moro” di Anastasio). In sostanza, cerchiamo una connessione di linguaggi con chi partecipa ai nostri laboratori, il rap è il punto di partenza ma, appunto, essendo un genere stratificato e molto diversificato, c’è bisogno, quasi, di “personalizzare” gli ascolti per ogni contesto specifico.
Si discute della figura della donna all'interno dell'immaginario rap. Quando la misoginia di certe metafore deve destare allarme, e quando invece possiamo considerarla semplicemente un'espressione della società in cui viviamo?
Paola Biffi: Penso che per rispondere a questa domanda bisogna tenere lo stesso approccio che si ha nel rispondere a qualsiasi domanda che ci si pone quando si parla di violenza di genere: la cultura patriarcale, purtroppo, non è un eccentrico accessorio di pochi, è nelle fondamenta della nostra cultura, dei nostri pensieri, di chiunque, ed è quindi difficilissima da scardinare in qualsiasi dimensione. Partire da questo triste assunto permette di analizzare la verità dei processi che stanno dietro a qualsiasi atto o pensiero violento verso le donne, e così anche nel rap. L’hip hop è forse il genere musicale che più di tutti rappresenta nei testi la società in cui viviamo, e la società è, come già detto, profondamente danneggiata dal machismo e dalla misoginia; questo non significa ignorare o giustificare il problema, significa non negarlo: il rap, proprio per la sua identitaria trasparenza, crudità, nei testi, lo nasconde meno di altri generi o culture e per questo è spesso, e spesso a ben ragione, attaccato per i contenuti violenti, ma gli stessi contenuti violenti, meno espliciti, ci sono in moltissime altre espressioni culturali.
Quindi?
Paola Biffi: Da ciò possiamo quindi trarre l’amara conclusione che sì, la misoginia nei testi dei rapper è tanto un allarme quanto un’espressione della società in cui viviamo. Quello che ancora una volta passa in secondo piano e tengo molto a evidenziare è che però il rap, più che altre forme culturali, ha in sé le potenzialità per risolvere, o quantomeno trattare, la questione. Se prendiamo la sua sfera più pedagogica e politica, il rap è da sempre la voce delle minoranze, lo è stato per gli afroamericani del ghetto, lo è oggi in Italia per i ragazzi di seconda generazione, e lo è per le donne che, pur passando in secondo piano a causa della poca attenzione che la cultura dominante riserva loro, sono nella scena rap da sempre e spesso utilizzano l’hip hop come strumento di denuncia ed emancipazione. Con l’Associazione 232, ho tenuto dei laboratori di scrittura rap incentrati sulla tematica della violenza di genere, con i ragazzi abbiamo affrontato la tematica partendo dall’analisi di alcuni testi dei loro rapper preferiti, evidenziandone le parti esplicitamente o implicitamente violente, abbiamo ascoltato testi di rapper donne che raccontano il loro vissuto, abbiamo scritto insieme una canzone che trattasse di questi temi: quello che è emerso è che le nuove generazioni, come sempre, sono più aperte e disposte a mettersi in discussione, è compito dei “grandi”, della società, dare a loro l’attenzione, gli strumenti e le possibilità per farlo.
I fan del rap di oggi sono molto giovani, molto influenzabili, spesso anche con poca cultura e consapevolezza alle spalle: secondo voi in che modo i rapper potrebbero aiutarli a distinguere tra metafora e realtà? C'è qualcosa che non fanno/comunicano abbastanza spesso e che dovrebbero iniziare a fare/comunicare, ad esempio?
Lorenzo Carminati: A oggi, riscatto sociale ed ego-trippin sono due concetti quasi identici nella testa delle nuove generazioni; d’altronde si vive una società completamente individualista e nucleare, e con queste premesse non ci si può stupire più di troppo quando ci si trova davanti all’evidente mancanza di “culturalità” nelle forme d’espressione odierne. Molti rapper, oggi, esaltano tantissimo la propria individualità e la propria affermazione nella società, spesso sacrificando una visione collettiva e comunitaria di un genere nato proprio come risposta culturale e sociale a un contesto pesantissimo. Sicuramente tanti concetti non vengono minimamente trattati da tanti dei “big” della scena italiana mentre, chi lo fa, spesso viene poco ascoltato o lascia spazio a dubbi sulla sincerità e genuinità delle sue parole. Si potrebbe forse sospendere ogni tanto, durante un concerto per esempio, i momenti di auto esaltazione e provare a parlare di qualche tematica culturale/sociale che riguardi tutti quanti; da chi sta sul palco a chi sta sotto; viviamo in un’epoca in cui non è assolutamente difficile trovarne qualcuna di queste tematiche.
Torna spesso il tema della censura dei testi rap. Qual è la vostra posizione? Vanno limitati? O forse dovremmo più interessarci della realtà e delle sue fratture piuttosto che della musica, che ne è un suo riflesso?
Lorenzo Carminati: Non c’è dubbio su questo: spesso, sentendo alcune opinioni, sembra quasi che siano i testi rap a dar vita ad atteggiamenti scorretti e devianti e questa cosa è veramente assurda e sbagliata. Oltre a dare un messaggio pregiudicante e chiuso, chi fa una riflessione del genere non si accorge minimamente di quanto stia ignorando la vera radice del problema: e cioè che quello che i rapper raccontano nei loro testi è solo una fotografia, testimonianza di quello che hanno davanti agli occhi tutti i giorni. E la cosa più incredibile è che ci si riesca a scandalizzare di un testo che parla di dinamiche forti e violente e non della forbice sociale devastante che ha prodotto quelle dinamiche. Forbice in cui ci sembra di far parte del ramo privilegiato, perché vediamo che esiste chi è messo peggio di noi, ma non ci accorgiamo di quanto siamo, per assurdo, molto più vicini di quello che si possa pensare. Il rap, la musica, l’arte in generale sono solo rappresentazioni dell’umano e di ciò che l’attraversa e non potrebbe essere altrimenti; più che censurare i brani bisognerebbe, al contrario, ascoltarli attentamente e cercare di immedesimarsi nel vissuto di chi li ha composti; cercare, appunto, una connessione vivida e prolifica, verso la costruzione di una società migliore.