Hasta la verdad, siempre. Tiziano Ferro ha cambiato etichetta, manager, produttori e a tre anni dal suo ultimo disco torna con il nuovo “Sono un grande”, in uscita venerdì 24 ottobre, che coincide con una sua nuova personalissima rivoluzione nel segno della verità. Non solo per le nuove traiettorie discografiche e musicali che ha intrapreso, ma anche perché nelle undici tracce del progetto, il cantautore affronta il passato, i suoi fantasmi, le ferite e cerca una luce inedita. Una rinascita che per essere raggiunta, ancora una volta, prevede lo svelamento, l’annullamento di ogni maschera. A un certo punto del suo percorso racconta di essersi sentito “obsoleto” e in quei casi, prosegue, “o chiudi la carriera o cerchi una nuova vertigine”. Lui ha scelto di tuffarsi.
Lady Gaga, nel suo ultimo tour, duella metaforicamente contro la raffigurazione di sé agli esordi. “Sono un grande”, allo stesso modo, è un “distruggere per ricostruire”?
Per forza. Io odio il disordine, anche nella vita. Ho bisogno di affrontare le cose. Ho bisogno di spiegarmi. Non c’è crescita senza squilibrio, senza quella sensazione di terra che manca sotto i piedi…Io volevo ripartire da un senso di vertigine.
Hai in mente un’immagine legata alla musica?
Sì, poche settimane fa sono andato a vedere dal vivo gli Oasis. È stato wooooow, il concerto che non ho visto negli anni ’90 e che dovevo vedere. Non è stato solo un live, ma una lezione. In tutti questi anni ho visto la cenere, le macerie, le mazze da baseball spaccate, ma la prima cosa che hanno fatto, prima di salire sul palco, è stata abbracciarsi e darsi un bacio sulla testa. Ecco lì. Ed è partito uno dei live più belli che abbia mai visto. Questo è stato possibile perché, prima, c’è stato tutto quello scontro, quella rottura che conosciamo.
Che cosa cercavi negli Oasis?
Li volevo rotti, ma anche riparati. E sul palco tutto questo è arrivato.
Lo svelamento passa dal non nascondere le crepe?
Per me se gli Oasis non avessero fatto i conti pubblicamente, non li avremmo avuti e ri-amati come oggi. Ci hanno messo la faccia. Hanno litigato davanti a tutti. Se non fai così, non stai facendo questo mestiere. Perché questo mestiere si fa così. Si può solo, per me, fare così. Non esiste il mito di Freddie Mercury senza anche tutto il resto. Un grande artista un disco lo può anche sbagliare, ma se questo non dice la verità alla gente, finisce tutto. La musica, con il tempo, è diventata simile alla religione, c’è fede, c’è spiritualità, c’è ascolto.
E la rivelazione?
È il concerto, dove si canta davanti alla gente, da lì non si scappa. E a quel punto non si può mentire. Se lo si fa, con il passare del tempo, si crolla. Questo è anche un discorso fisico, non solo artistico. Io non so che senso abbia cancellare le rughe o nascondere il proprio corpo se tanto un giorno ti vedranno sul palco per quello che sei. È meglio accettare una ruga o deludere il proprio pubblico?
Con questo tipo di consapevolezza, scrivere canzoni non fa paura?
La verità può diventare una dipendenza. Oggi per me lo è. La conseguenza più tragica che può capitare mettendo una verità in una canzone non sarà mai peggiore di inserire una bugia. Se crei una menzogna, poi hai bisogno anche di quella successiva, è un gioco al massacro. La verità è più facile. Lo insegno anche ai miei figli. Dire cazzate è avvilente. Ed è qualcosa che sto imparando anche io…
I fan, in tutto questo, che ruolo hanno?
Le persone oggi non hanno bisogno di un santone con gli addominali scolpiti, ma di uno specchio in cui poter rivedere le proprie fragilità. Se non fosse così, secondo me, oggi molta gente non andrebbe più ai concerti. Se io dovessi fare una lezione a un’ipotetica Università della Musica direi questo: partiamo dalla verità.
Le maschere, però, esistono e fanno parte del percorso. Nel disco ne parli, tracciando anche un confine, in “Fingo&Spingo” tra dimensione privata e pubblica.
Sì, all’inizio le maschere ci sono, è vero. E le indossi perché non sai chi sei. Io, a vent’anni, non sapevo chi fossi, soprattutto essendo nato in una piccola città di provincia. Ma la finzione, a meno che non sia scenica, alla Lady Gaga, in cui si diventa “mostro”, non è positiva. Il trasformismo di Gaga ti porta vicino a chi non ti somiglia, per questo lei è magica. Gaga è l’idolo degli outsiders per tutto questo, ma anche perché non si è rifatta il naso, perché chiama i suoi fan “piccoli mostri”. La bruttezza non è certo lì, ai suoi concerti, ma là fuori, nel mondo. Gaga, tutto questo, lo ha fatto a spese sue. Poteva essere Christina Aguilera, più patinata, e invece no: ha preferito sporcarsi le mani.
Ma tra fama e anonimato, tornando a “Fingo&Spingo”, che cosa si vuole di più?
Diventi il migliore nelle due cose quando vai in astinenza dall’altra. Mi spiego: io vengo da un mondo in cui si faceva uscire un disco, si andava in tour e poi si spariva. Non c’erano i social. Ecco, io ho bisogno dell’astinenza da palco per poi dare il massimo. E non è una critica a chi non crea questo stacco, a chi c’è sempre. Anche esserci sempre è un’arte. Ma io non sono quel genere di artista.
Per esserci sempre bisognerebbe anche sempre dire qualche cosa…
Ecco, appunto, io voglio poter usufruire della “non risposta” perché magari sto capendo una questione, la sto approfondendo e non voglio esprimermi subito.
Come è stato lavorare con nuovi produttori come Zef e Bias?
Facile, perché amano e respirano la musica. Quando si incontrano produttori così ci si butta a terra con le mani giunte e si ringrazia il cielo urlando “la musica non è finita”. Pensa quanto sarebbe stato noioso rimanere chiuso in una scatola, no?
Per questo hai cambiato tutto, ma tutto per davvero?
Sì. Manager, casa discografica, produttori. Dopo venticinque anni di carriera, non ho paura di farmi insegnare delle nuove cose. Non ho paura delle critiche. Ho bisogno di sentirmi dire che cosa non va.
Nel disco ti confronti con molti fantasmi, ma ci sono anche i raggi di sole: penso a brani come “Gioia”, “L’amore è re”, “Le piace” e la finale “Meritiamo di più”, che è un grido di speranza. Era importante anche raccontare questa faccia della medaglia?
Quello che mi fa molto incazzare della comunicazione di oggi è che si parla tanto dei problemi, ma poco delle soluzioni. Io sento di dover parlare anche di dove si trova la luce, non solo del buio nel tunnel. Il dramma personale, ovviamente, vende, ripaga, ma se non si parla anche delle soluzioni diventa puro narcisismo.
Le canzoni si possono spiegare?
A volte sono i fan a farlo per me. Mi offrono delle chiavi di lettura o delle prospettive inedite, nel bene e nel male. La sensazione di ascoltare un disco per l’ultima volta, il giorno prima della pubblicazione, ovvero quando è solo di chi lo pubblica, è stranissima. Non suonerà più come in quel giorno. Nel momento in cui un artista pubblica una canzone, quella canzone non è più solo sua. È orrendo e bellissimo.
In “1-2-3” parli di salute mentale e lo fai in modo diretto, tirando in mezzo la vita e la morte. Anche questi argomenti vanno trattati senza maschere?
Gli hashtag #salutementale sono diventati una moda. Non si può banalizzare un tema delicato e pericoloso. Torniamo al discorso di prima: il dramma attira, ma perché non si parla di soluzioni? Perché non si parla di malattia? Perché non si parla di farmaci? Di psichiatri? Perché non si parla di mantenimento? Davanti a tutto questo, credo che si debba essere più espliciti anche nella musica.
Fabri Fibra ha scritto un brano crudo su suo padre, “Mio padre”. Recentemente, in concerto al Forum, non lo ha rappato pur facendo parte del suo ultimo album. E ne comprendo le ragioni. Allo stesso modo ti chiedo: “Ti sognai”, in cui tu affronti il difficile rapporto con tua madre, riuscirai a cantarla dal vivo nel tuo prossimo tour negli stadi (qui le date)?
No, non me la sento. Quando dico che questo “è il disco che potevo non fare”, intendo proprio questo. Ci sono cose che non puoi dire a metà. O le dici, o non le dici. Non me la sento di andare su un palco a dire delle cose senza che quella persona di cui parlo non abbia lo stesso palco per poter dire la sua...Ho fatto già abbastanza. Mi piacerebbe fosse un singolo, quello sì, però sul resto faccio fatica…
In “Milite ignoto” canti: “E non rimane un cazzo se non sei nessuno”.
In quella frase ci sono anche i motivi del perché ho deciso di cambiare team di lavoro. Non perché avessi litigato con qualcuno…Ma c’è stato un momento in cui mi sentivo obsoleto. Ammetto che il passaggio generazionale da giovane a “non più giovane” è stato faticoso. Passare dall’essere giudicato per quanti dischi fisici vendi al numero di streaming, quindi in un altro mondo, ti fa pensare di non starci più dentro. Ed è orrendo. Mi ha fatto paura…
Vuoi parlarmi meglio di questa paura?
…O spacchi negli streaming o non ci sei più…fa male. A quel punto hai due strade: o smetti, o ti togli la terra sotto i piedi e cerchi una nuova vertigine. La mia paura è la stessa che hanno vissuto tanti colleghi.
C’è stato qualcuno che ti ha detto qualcosa di significativo?
Lorenzo (Jovanotti, ndr) mi ha detto: “Tiziano tu sei diventato un classico, giochi in un altro campionato”. Mi hanno aiutato le sue parole, mi hanno confortato.
Robbie Williams, nel suo documentario, dice che la gente ti fotografa nel momento in cui hai successo e da quella fotografia non si scappa più.
Bisogna cercare il bello di questo. È difficile, ma bisogna ricordarsi che è un privilegio. Io, comunque, vado a fare i concerti negli stadi, me ne rendo conto, non mi posso lamentare, ma è stato molto complesso risintonizzarsi sulla frequenza giusta. Però una cosa me la riconosco…
Quale?
Non sono entrato nell’incattivimento del “voi non capite un cazzo”. Mi sono detto “forse non capisci un cazzo tu”. E ho cambiato tutto. Tutto. Eccoci qui. Ho dovuto farlo, se non lo avessi fatto sarebbe finito tutto…E sai cosa ti dico ora che ho cambiato ogni cosa? Che se devo finire comunque, almeno voglio finire con il botto (ride, ndr).
“Sono un grande” te lo sei mai ripetuto?
No. E ho sbagliato, bisogna anche darsi dei meriti ogni tanto.