Quanto ci manchi, Bonzo

Il 25 settembre di 45 anni fa moriva John Henry Bonham, cuore pulsante dei Led Zeppelin

Le classifiche lasciano quasi sempre il tempo che trovano. Soprattutto nella musica. Gli artisti, le band, i brani bisogna goderseli, senza troppe discussioni su chi o che cosa sia meglio di uno o dell’altro. Certe volte, però, fare classifiche è più facile: alcuni nomi sono punti cardinali per chiunque. E John Henry Bonham, nella classifica dei migliori batteristi della storia, è un punto cardinale. È questione di tecnica, di approccio, di groove, di spirito e di iconicità. Quando sei incisivo in tutti e cinque questi campi, sei un batterista destinato a passare alla storia

Autodidatta – dettaglio che non fa che accrescere la dimensione del suo estro, come nel caso di Frank Zappa –, la sua avventura ritmica inizia davanti a un kit fai da te composto da lattine di caffè, a 5 anni. A 10 riceve il primo rullante, a 15 il primo set completo. Nessuna lezione: chiede consigli ai batteristi in città, nel Worcestershire. Quando non è insieme al padre nei panni di apprendista falegname, porta avanti l’attività musicale con qualche band del posto. Ammiriamo e ringraziamo ancora oggi il giovane Robert Plant per non aver ceduto al diktat che inizia a diffondersi nei locali della zona: “vietato l’ingresso a gruppi con John Bonham alla batteria".

Troppo rumoroso, troppo irruento secondo i gestori, che non ne comprendono il genio – come spesso capita ai geni. Anche se, col senno di poi, evitare il successo gli avrebbe con ogni probabilità salvato la vita. Ragazzo di campagna, John è talmente mansueto da guadagnarsi il soprannome "Bonzo", sinonimo di monaco buddista. Quando la fama con i Led Zeppelin lo travolge e lo costringe a vivere lontano dalla famiglia, il sistema emotivo va in cortocircuito. Inizia a vivere di eccessi, a ubriacarsi, a distruggere camerini e stanze d’albergo in preda a violenti disturbi di personalità. Tanto che il soprannome da “Bonzo” diventa “the beast”: la bestia. La mattina del 25 settembre 1980, il manager della band e John Paul Jones lo trovano soffocato dal suo stesso vomito.

«Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere — in piena armonia tra noi e il nostro manager — che non possiamo più continuare come eravamo». I Led Zeppelin muoiono insieme a Bonham. Insostituibile. Il motivo è molto semplice: nessuno può replicare fedelmente quel suono profondo e dinamico. Profondo, perché dalle sue Ludwig, dall’iconico kit Vistalite trasparente arancio e dall’accordatura alta dei tom riesce a tirare fuori un timbro tonitruante e monumentale. Ma anche dinamico, perché non c’è altra parola per descrivere il senso ritmico di Bonzo, capace di passare da ghost notes appena accennate a colpi devastanti, mantenendo costante il groove; capace di fondere blues, hard rock e funk in un linguaggio che ancora oggi ispira generazioni di musicisti.

Il suo big drum sound – quello di “When the levee breaks”, registrato nell’atrio di Headley Grange, per intendersi – diventa materia di studio. Un manuale di batteria moderna. Equilibrio strabiliante tra rudimenti tradizionali e applicazione creativa, tra approccio viscerale e tecnica. Non è solo “un batterista potente”: è una forza della natura, con una visione orchestrale che gli consente di rivoluzionare il ruolo del suo strumento nel rock. Le sue esibizioni live parlano da sole: assoli di oltre venti minuti, mani nude sui tamburi, energia pura che travolge tanto il pubblico quanto i compagni di palco. Un ciclone.

I colpi di Bonham sono mattoni fondamentali nel muro sonoro degli Zeppelin e nove album sono lì a dimostrarlo. La sua batteria non è mai semplice accompagnamento: è architettura sonora. Chi crede che John Bonham fosse solo “il batterista dei Led Zeppelin” manca di rispetto a una leggenda, al potere del suo strumento e alla storia della musica tutta. Perché una certezza nella vita c’è: il rock, dopo Bonzo, non è più stato lo stesso.

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