Per gentile concessione dell’editore Il Castello, che lo edita nella collana Chinaski, pubblichiamo un estratto tratto dal volume (400 pagine, 22 euro) che è già disponibile da ieri 24 settembre in tutte le librerie.
È il 2 luglio 2005 e la band deve esibirsi al Live 8 all’Hyde Park di Londra. […]
Il Live 8 è stato organizzato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione del Terzo Mondo e per esortare i leader mondiali, riuniti per il vertice del G8 la settimana successiva, ad affrontare il problema della povertà. Uno di questi leader, il Primo Ministro Tony Blair, si è lasciato sfuggire che, a prescindere dalle motivazioni politiche della band, non vede l’ora di assistere all’esibizione dei Pink Floyd al Live 8. Blair è un appassionato di rock, suona la chitarra e per un breve periodo, all’università, ha cantato in una band. Ogni volta che la stampa si occupa del passato rock‘n’roll del premier, gli articoli vengono inevitabilmente corredati da una foto del giovane Blair nel 1972, che sfoggia un sorriso raggiante dietro ai lunghi capelli spettinati. Se non fosse per quel sorriso, potrebbe anche passare per un membro dei Pink Floyd o, nel peggiore dei casi, per uno dei loro roadie, magari uno di quelli “allontanati” perché troppo allegri, messi sotto torchio da Roger Waters. […]
Al Live 8 si sono susseguite esibizioni brillanti e meno brillanti, oltre ai soliti momenti disastrosi che si verificano quando le pop star si impegnano in una causa meritevole. L’organizzatore, Sir Bob Geldof, è riuscito a radunare i pezzi grossi della famiglia reale del pop, utilizzando le stesse tattiche di persuasione impiegate per l’organizzazione del Live Aid nel 1985. In particolare, l’insinuare implicitamente che qualsiasi band si fosse rifiutata di partecipare avrebbe intaccato per sempre la propria credibilità. Gli U2, Madonna, Sir Elton John, Sir Paul McCartney e numerose rockstar più giovani e meno blasonate hanno accettato di prestare i loro servizi gratuitamente. La scaletta sembra casuale, i nuovi arrivati seguono le vecchie glorie, ma con il passare delle ore emerge una sorta di ordine di priorità.In tutto il mondo, sono in corso altri nove concerti in città come Roma, Berlino e Philadelphia. Per molti dei presenti, però, la performance più attesa è una di quelle del concerto di Londra. Come ammette a malincuore lo stesso Geldof: “negli Stati Uniti si parla più della reunion di questa band che del Live 8 stesso.” Il giorno in cui viene annunciata l’esibizione dei Pink Floyd, circolano voci di un promoter pronto a offrire 250 milioni di dollari per un tour dei quattro. […]
Sono passati più di ventiquattro anni dall’ultima volta che i quattro hanno condiviso un palco. Nel frattempo, Gilmour, Wright e Mason sono andati avanti con il nome dei Floyd, pubblicando album e organizzando tournée, mentre Roger Waters, ex bassista del gruppo, ma anche il loro autore più prolifico, se ne stava in disparte infuriato. Una volta ha dichiarato che i suoi ex colleghi “hanno preso mio figlio e l’hanno venduto, l’hanno fatto prostituire, non li perdonerò mai per questo.”
Magari il perdono è ancora lontano, ma oggi i quattro sembrano aver stabilito una sorta di tregua. I Pink Floyd non registrano un album dal 1994 e, in condizioni normali, convincere quello che il chitarrista David Gilmour descriveva come “questo grande colosso ingombrante” ad alzarsi dal suo torpore sarebbe stato complesso. Grazie al richiamo di una buona causa e alle consumate capacità di Geldof, sono bastate appena tre settimane: il riluttante Gilmour ha accettato di suonare e i Floyd sono tornati sul palco di Hyde Park. […]
Alle 22:57, senza alcuna cerimonia o presentazione, un suono inquietante ma familiare avvolge il parco. I roadie rimasti sul palco scompaiono improvvisamente dietro le quinte. Il suono aumenta di volume: sembra il battito di un cuore, un metronomo secco e costante. I riflettori si muovono sopra il pubblico, lo schermo dietro al palco si rianima con uno sfarfallio, la pulsazione cardiaca si fa più forte. Poi arriva la voce: “Sono matto da anni, cazzo.” È il frammento di un discorso di un roadie dei Pink Floyd, registrato quasi trent’anni prima negli studi di Abbey Road. Seguono il ronzio minaccioso delle pale di un elicottero, il campanello di un registratore di cassa e una risata sguaiata che si ripete ancora e ancora, prima d trasformarsi in un lungo, isterico, grido: il momento conclusivo di “Speak to Me”, la prima traccia di Dark Side of the Moon.
Quell’urlo da pelle d’oca sembra aumentare di tono e volume, per poi essere sostituito dall’intro rilassante di “Breathe”. Quando i riflettori si abbassano e il palcoscenico si illumina, il pubblico riesce a scorgere per la prima volta gli uomini sul palco. […]
Stasera i Pink Floyd sembrano stranamente reali. Potrebbero essere un gruppo qualsiasi di uomini d’affari cinquantenni vestiti casual perché è festa. O riuniti al circolo di golf in attesa che smetta di piovere per iniziare una partita. Anche se i loro jeans sbiaditi, forse, potrebbero non rispettare le regole del club. Sul fondo, Nick Mason, con un’espressione concentrata e complice al tempo stesso, si dà da fare alla batteria. Autore di un libro recente sulla band, Mason è il membro più visibile e mediatico del gruppo, anche se la sua decisione di continuare a far parte dei Pink Floyd dopo l’abbandono di Waters ha portato a una frattura con il suo amico, che si è sanata solo negli ultimi anni. Autoproclamatosi diplomatico del gruppo (“Sono l’Henry Kissinger del rock”, racconterà poi ai giornalisti), Mason è stato determinante nell’aiutare Geldof a mediare la reunion. […]
Ora, a distanza di tre decenni, i baffi da tricheco e la corona di lunghi capelli scuri che nei primi anni Settanta erano il suo marchio di fabbrica sono ormai un ricordo lontano. Rasato di fresco, con un leggero doppio mento e i capelli grigi ancora folti ma corti, il batterista sessantenne assomiglia tanto all’architetto che poteva diventare. La sua camicia bianca ha delle pieghe rivelatrici, che suggeriscono sia appena uscita da una scatola.
A sinistra del palco, Richard Wright è chino sulle sue tastiere. Indossa una giacca di lino scuro su una camicia bianca. Il suo atteggiamento un po’ da cane bastonato una volta ha spinto un osservatore a paragonarlo a “un ex campione sfortunato.” In realtà, anche se per un breve periodo aveva studiato pure lui da architetto, Wright ha ancora un’aria creativa e rispetto al batterista trasmette di più l’idea di una rockstar degli anni Settanta in semi-pensionamento. […]
In jeans logori e maglietta nera, David Gilmour fissa solenne un punto distante. Più di tutti i suoi compagni di band, Gilmour ha sempre avuto l’aspetto tipico del musicista hippie anni Settanta: scalzo, rilassato, con spesso una ciocca di capelli tirata dietro l’orecchio, per tenerla lontana dal viso mentre sistemava le impostazioni dell’amplificatore o schiacciava un pedale degli effetti con le dita dei piedi. I capelli sono spariti da tempo, ciò che ne resta è stato rasato a zero e il girovita è più tondo. Ma ora Gilmour sembra più sicuro di sé. Cullando la chitarra, si accinge a cantare testi scritti dalla sua antica nemesi, Roger Waters. Gilmour è stato l’unico frontman dei Pink Floyd dalla metà degli anni Ottanta. Bersaglio prediletto dell’ira di Waters, ha curato due album di platino dei Floyd e tour da record senza il suo ex partner. Scambia brevi sorrisi con Mason e con il pubblico, tra cui la moglie e alcuni dei suoi figli che assistono dall’area di fronte al palco, ma guarda a malapena il bassista.
A pochi metri di distanza, Roger Waters presidia il proprio angolo. I suoi capelli ingrigiti sono più lunghi e toccano ancora il colletto di una camicia blu sbiadita. Le maniche arrotolate rivelano un orologio dall’aspetto costoso che tintinna a ogni movimento. Waters, più che suonare il basso, pare aggredirlo. Con il mento sporto in fuori, aggrotta il viso e scuote la testa a tempo di musica mentre stringe il manico dello strumento. Sorride spesso, ma quando scopre i denti il suo sorriso diventa stranamente aggressivo. A discapito di questo atteggiamento minaccioso, Waters sembra felice di ritrovarsi sul palco con gli stessi uomini che vent’anni prima aveva minacciato di azioni legali. È interessante notare che, mentre Gilmour canta, Waters scandisce con la bocca le parole, come a ricordare al pubblico che quelle sono le sue canzoni.
“Breathe” è un’apertura tranquilla, di basso profilo. Il dolce accordo di chitarra porta il pubblico a sollevare gli accendini, mentre sorrisi beati illuminano i volti di coloroche hanno passato le ultime dieci ore e mezza ad aspettare questo momento. […]
Dopo un velocissimo saluto al pubblico, da “Breathe” si passa a “Money”, il singolo che ha contribuito a rendere famosi i Pink Floyd in America. Un pezzo hard rock, rumoroso e carico, il cui testo è diventato un facile bersaglio per chi critica lo status da multimilionari dei Floyd. Ma il tema è adatto alla serata del Live 8 e, come spiegherà in seguito Mason, “Sir Bob voleva che la facessimo.” In ogni caso, la spinta e il ritmo della canzone la rendono perfetta per un evento all’aperto. Gilmour si lancia in un assolo inquieto, prima che la canzone venga spezzata a metà da un assolo di sassofono di Dick Parry, che aveva suonato anche nel brano originale. Pure lui si aggira sul palco con l’aria di un golfista diretto alla nona buca. Mentre i due affrontano la parte finale della canzone, c’è un brevissimo contatto visivo tra Gilmour e Waters, subito interrotto. […]
Nel contesto di questo concerto, “Wish You Were Here” suona per quello che è: una semplice canzone d’amore per un amico scomparso. Gilmour e Waters suonano entrambi la chitarra acustica, mentre un membro della famiglia Floyd, il secondo chitarrista Tim Renwick, esce dall’ombra per aiutarli. Waters canta la seconda strofa: la sua voce aspra e incrinata contrasta con il timbro più dolce di Gilmour. La canzone è breve, semplice e accolta con estatico entusiasmo. L’ispirazione e il significato del brano al pubblico sono chiari: parla dell’unico membro della formazione originale a non essere presente sul palco stasera.
La canzone di chiusura è tanto inevitabile quanto attesa. Non suonarla sarebbe stata un’eresia. “Comfortably Numb” è tratta da "The Wall", un concept album che parla del declino di una rockstar. Dividendosi di nuovo le parti vocali, Waters e Gilmour cantano dell’artista bruciato di "The Wall", che scivola in un nirvana indotto dalle droghe. Poi, Gilmour si lancia nell’assolo di chitarra che porta la canzone a un climax grandioso e hollywoodiano, goffamente saccheggiato da tanti gruppi rock, da allora. È magnifico, spettacolare e stranamente commovente.
Le espressioni serie si trasformano in sorrisi di sollievo, mentre i quattro si dirigono verso il centro del palco. Waters, che già abbraccia Mason e Wright, fa un cenno in direzione di Gilmour, a disagio. Gli dice: “Vieni qui.” Esitante, il chitarrista si lascia abbracciare e i Pink Floyd riuniti fanno l’inchino. Qualcuno dal pubblico urla una frase che cattura perfettamente quel momento: “Pink Floyd riuniti! Pigs Have Flown.”