Il 12 settembre 1975 i Pink Floyd pubblicano “Wish You Were Here”. Un'opera che oggi consideriamo leggendaria, all’epoca fu il risultato di una crisi profonda non solo musicale: personale, emotiva, esistenziale. Per un attimo, come ricorda Nick Mason, la band fu davvero a un passo dallo sciogliersi: “Dopo 'Dark Side' ci fu un momento in cui pensavamo seriamente di fermarci. Avevamo raggiunto tutto. E ora?”.
La lunga scalata al successo
Nel marzo 1973, “The Dark Side of the Moon aveva spalancato ai Pink Floyd le porte del successo mondiale. La consacrazione arriva poche settimane dopo: i Floyd erano in tour negli USA e si svegliarono rockstar. Disco d’oro il 17 aprile, primo posto su Billboard a fine mese, il singolo “Money” nella Top 100. Il successo di quel disco fu clamoroso e duraturo, tanto che ci vollero due anni perché l’album uscisse dalla Top 30 inglese. Il prezzo da pagare per i quattro musicisti fu altissimo. Intanto il loro pubblico cambiava: i vecchi ascoltatori attenti e silenziosi venivano sostituiti da folle più caotiche, rumorose, distratte e spesso ubriache. Dal canto loro i Pink Floyd, impreparati a questa trasformazione, avevano involontariamente contribuito al distacco dal pubblico incrementando lo spettacolo visivo per favorire una maggiore fruizione anche ai fan più lontani negli stadi in cui si stavano esibendo. La band si rifugiava così dietro luci, effetti speciali, immagini su schermo. Mason spiegò: “Le immagini aiutano a vivere la musica. Se guardi e ascolti insieme, non hai tempo per distrarti”. La fama li aveva resi invisibili. Nessuno li riconosceva per strada e andava bene così. Roger Waters, anzi, ne faceva un vanto: “Non ci interessa essere riconosciuti. Se non conosci le facce dei Pink Floyd, meglio”. Il distacco tra la band e il mondo stava per trasformarsi in un muro.
Dopo il boom, il vuoto
Con “Dark Side”, i Pink Floyd smisero di correre. Dopo anni di tour senza sosta, nel 1973 si fermarono. Milionari, sì ma anche confusi. David Gilmour lo ammise: “Dovevamo capire se eravamo artisti o uomini d’affari”. Nel tentativo di riaccendere la creatività, alla fine del 1973 provarono una follia: un progetto chiamato “Household Objects”, nel quale dovevano registrare canzoni senza gli strumenti classici come basso, batteria, chitarra e tastiere, utilizzando oggetti casalinghi di uso comune: bottiglie, elastici, fiammiferi, rotoli di adesivo, fogli di carta strappati. Alcuni frammenti, come “Wine Glasses” e “The Hard Way”, verranno pubblicati solo nel 2011 nelle versioni “Immersion” di “Dark Side” e di “Wish You Were Here”. Ma era chiaro che serviva qualcosa di più per vendere qualche altro milione di copie e l'esperienza servì soprattutto per distrarli e fargli tornare la voglia di sperimentare e di suonare.
Quattro note e un tema che rievoca il passato
Nella primavera del 1974, la band si ritrova in una sala prove di King’s Cross, Londra, provando a comporre nuove canzoni per dare seguito a “The Dark Side Of The Moon”. Waters racconta: “Abbiamo suonato insieme, lavorando come avevamo sempre fatto, allo stesso modo in cui abbiamo scritto 'Echoes'. 'Shine On' è nata grazie a idee musicali sparse che venivano un po' da tutti”. In quella sala buia e poco accogliente David Gilmour pizzicò quattro note alla chitarra, meglio conosciute come il “Syd's Theme”, finito nella “Part 2” di “Shine On”. Un riff semplice, malinconico. Roger Waters si voltò verso di lui: “Ehi, cosa stai suonando?” La scintilla aveva provocato interesse, un tema su cui lavorare e pochi minuti dopo, quando la band si aggiunge al chitarrista, costruirono insieme attorno alla melodia una struttura imponente. Continua Waters: “La sua chitarra è la prima che si sente nell'album, funge da punto di partenza. Abbiamo lavorato a partire da lì finché non abbiamo cucito insieme tutte le varie parti”.
Dopo una lunga operazione compositiva che vide impegnati Gilmour, Waters e Wright, nasceva “Shine On You Crazy Diamond”, che nella versione in studio era composta da nove diversi movimenti. Si trattava di una suite, per la quale Waters aveva scritto un testo struggente, chiaramente ispirato a Syd Barrett, l’amico perduto, l’anima fragile e geniale che aveva dato vita ai Floyd e poi era scomparso, consumato da se stesso. Quel testo viene cantato nella “Part 4” del brano. Gilmour: “Roger sparì un paio di giorni per scrivere il testo e si presentò con questo tributo a Syd. Sono parole bellissime ed è un omaggio affettuoso da parte di tutti noi”.
“Shine On” venne presentata dal vivo già nel tour del ’74, prima in Francia e poi in Inghilterra. Mentre la critica si era mostrata scettica sulle altre due composizioni, le lunghe e ruvide “Raving And Drooling” e “You Gotta Be Crazy” (future “Sheep” e “Dogs” dell'album “Animals”), fu unanime su “Shine On”, che venne subito considerata la punta di diamante del loro nuovo percorso musicale.
Ritorno agli Abbey Road Studios
Nel gennaio 1975, la band si rinchiude nello studio 3 di Abbey Road, con un intenso calendario che prevedeva tre mesi di incisioni serrate, quattro giorni alla settimana. Eccitati dall'idea di poter sperimentare il nuovo registratore da ventiquattro piste, introducevano una importante novità in sala di regia. Alan Parsons, l’ingegnere del suono che aveva reso magico “Dark Side”, aveva alzato un po' troppo il tiro con una richiesta economica rifiutata da Steve O'Rourke, arcigno manager dei Pink Floyd. Parsons fu così rimpiazzato da Brian Humphries, già al mixer nel tour inglese del 1974, che dovette faticare per mettere insieme i cocci di una band disunita, confusa, poco motivata: “Passavano le giornate tra freccette e fucili ad aria compressa. C’erano momenti in cui non facevano nulla”. La musica non sembrava più essere la priorità dei Pink Floyd.
Le sessioni erano caotiche e il rapporto tra i musicisti disunito: ognuno registrava per conto suo e alcuni di loro si assentavano quando ritenevano non fosse necessaria la loro presenza. Il clima era teso, le idee poco chiare. I ricordi di Nick Mason, che in quei mesi stava vivendo il disagio per la fine del suo matrimonio, non sono dei migliori: “Fu difficile realizzarlo rispetto ai precedenti. Roger stava diventando più arrabbiato. Stavamo invecchiando e avevamo dei figli. C’erano situazioni spiacevoli tra noi, come ad esempio persone che arrivavano tardi in studio, cosa che odiavamo. C’era maggiore pressione nei miei confronti affinché suonassi più preciso e meno ondeggiante. È un po’ il discendente di 'Meddle' per come certi temi vengono via via ripresi e ripetuti, per la regolarità delle metriche”.
La scelta del materiale da registrare aveva creato tensioni: Gilmour avrebbe voluto registrare direttamente i tre nuovi brani presentati nei concerti del 1974. Waters, invece, voleva raccontare quello che stavano vivendo: la frustrazione, l’alienazione, l’assenza. Così propose di dividere “Shine On” in due parti, da usare come cornice, e scrivere nuove canzoni da inserire in mezzo. Gilmour non era d’accordo. Si votò. E perse. Le tensioni tra Waters e Gilmour crebbero e il loro rapporto non sarebbe mai più stato lo stesso. Roger ricorda: “Eravamo ai ferri corti. Avevamo idee opposte. Non eravamo più amici”.
Nonostante questo clima i Pink Floyd riuscirono a portare a compimento “Wish You Were Here”, un concept album che ruotava sui temi che stavano angustiando i quattro musicisti, come assenza e disconnessione, trovando anche un colpevole, la disumanità dell’industria musicale che li aveva inghiottiti e che nel 1967 aveva stritolato tra i suoi ingranaggi Syd Barrett, diventato simbolo di tutto ciò che si può perdere.
Le sessioni di incisione furono difficili, ma la musica – ancora una volta – fece da collante. Le canzoni parlavano di loro, del vuoto lasciato dal passato, dell’inganno del successo. Una Polaroid esatta della loro situazione.
Il fantasma di Syd Barrett si materializza in studio
C’è un episodio, leggendario e inquietante, che segna per sempre la storia dei Pink Floyd e del loro album “Wish You Were Here”. Accadde il 5 giugno 1975, negli studi di Abbey Road. La band stava mixando proprio “Shine On You Crazy Diamond”, il brano dedicato a Syd Barrett, quando Syd si presentò davvero. Era l’ultimo giorno in studio prima della partenza per gli Stati Uniti. Si era organizzato un piccolo rinfresco per celebrare il recente matrimonio di David Gilmour. In mezzo alla confusione della festa, qualcuno notò un uomo strano, silenzioso, dal volto sconosciuto. Nessuno lo riconobbe subito, ma quando accadde, tutti erano sconvolti. Era Syd Barrett, ma completamente trasformato: ingrassato, calvo, con le sopracciglia rasate. Così irriconoscibile che persino i suoi ex compagni di band – che non lo vedevano dal 1970 – faticarono a capire chi fosse. Fu un momento surreale.
Jerry Shirley, batterista degli Humble Pie, presente quel giorno, racconta: “Pensavo fosse un Hare Krishna. Mentre mangiava, mi guardava e sorrideva in modo strano... Quando David mi disse che era Syd, mi voltai, e all’improvviso tutto mi fu chiaro. Avevo davanti Barrett. Gli chiesi come stava. Lui ridacchiò quando capì che non l’avevo riconosciuto”.
Richard Wright aggiunge: “Saltava da una parte all’altra spazzolandosi i denti. Era terribile.”
Roger Waters, visibilmente provato, disse: “Ero in lacrime. Eravamo entrambi in lacrime. È stato davvero sconvolgente.”
Anche Gilmour ricorda l’incontro con commozione: “Camminava osservando gli impianti. All’inizio pensai fosse un tecnico della EMI. Solo dopo, quando si sedette nella sala mixer, ci guardammo e ci chiedemmo: ‘Chi diavolo è questo tizio così stravagante?’”.
Storm Thorgerson, presente in studio, raccontò che diverse persone scoppiarono a piangere. Quando qualcuno ebbe il coraggio di chiedergli cosa ne pensasse di “Shine On”, Syd rispose con un sorriso disarmante: “Mi sembra un po’ datata.”
La cosa più incredibile è che Barrett si presentò proprio nel giorno in cui i Floyd stavano finendo di registrare il brano a lui dedicato, come se avesse percepito qualcosa. Non solo: secondo alcune testimonianze, era arrivato con la chitarra, disponibile a suonare.
Quel pomeriggio fu l’ultima volta in cui molti di loro lo videro. Poco dopo, Syd si ritirò definitivamente nella sua Cambridge. Non rilasciò più interviste, non tornò più alla musica. Si spense il 7 luglio 2006, a 60 anni. Ma la sua figura, tra mito e leggenda, sarebbe rimasta per sempre un simbolo indelebile e non solo nella storia dei Pink Floyd.
Luglio 1975: il missaggio di “Wish You Were Here”
Con le presse accese per dare alle stampe il nuovo album e in tasca i biglietti pronti per le vacanze, tra il 7 e il 15 luglio i Pink Floyd faticarono non poco per portare a termine il nuovo album, aggiungendo le ultime sovraincisioni e il missaggi, stanchi e provati dal lungo lavoro in studio e dai due importanti tour americani appena conclusi. Nick Sedgwick, un giornalista che da alcune settimane seguiva la band durante i concerti per scrivere un libro su di loro, aveva registrato ore e ore di testimonianze dirette da utilizzare nel suo lavoro. La proposta di Waters di inserire spezzoni quei nastri con le interviste come intermezzi nel nuovo album — sulla falsariga di quanto fatto in 'The Dark Side of the Moon' — fu accantonata: le parole erano scomode, troppo intime e autentiche, una testimonianza fin troppo sincera di ciò che erano diventati.
La musica, però, raccontava già tutto il loro disagio. E quella non fu modificata. Quella, sì, parlava forte.
La copertina sull’assenza: arte, simboli e mistero
Come tutto l’album, anche la grafica di “Wish You Were Here” parlava la lingua delle cose non dette, dei vuoti che lasciano le persone importanti, delle assenze che fanno più rumore delle presenze. Il senso dell’intero album – la perdita, la distanza, l’incomunicabilità – si riflette perfettamente anche nella sua copertina iconica, concepita dal collettivo grafico Hipgnosis, guidato da Storm Thorgerson e Aubrey Powell. “Il filo conduttore era l’assenza,” spiegò Thorgerson. “L’uomo che brucia è assente metaforicamente: troppo impaurito per essere presente. L’uomo che si tuffa è assente fisicamente: manca il suo corpo, manca lo schizzo nell’acqua. Anche la stretta di mano è ambigua: può essere vuota, oppure sincera.”
Questa filosofia venne portata all’estremo con una scelta geniale: avvolgere il disco in una pellicola nera opaca, rendendo invisibile la copertina stessa, come a dire che anche l’immagine... era assente. Solo un piccolo adesivo riportava nome della band e titolo dell’album.
La copertina vera e propria fu scattata ai Burbank Studios in California, ad aprile 1975. Mostrava due uomini d'affari che si stringono la mano, mentre uno dei due prende fuoco. Per lo scatto furono utilizzati due stuntman professionisti: Danny Rogers e Ronnie Rondell, entrambi esperti del cinema statunitense.
Il retro mostrava un uomo con bombetta – stile Magritte – che tiene in mano una versione trasparente del vinile del nuovo disco, simbolo ulteriore di assenza. L’uomo è senza volto, senza mani, senza gambe: completamente trasparente. La foto fu scattata tra le dune del deserto di Yuma, Arizona – le stesse dove venne realizzata anche l’immagine del nuotatore nella sabbia, chiamata 'The Meaning of Life'. Serve ricordare che in realtà nel momento in cui fu scattata quella foto quel disco non era stato ancora stampato e che l'edizione ufficiale in vinile trasparente non sarà mai realizzata ufficialmente.
All’interno, la busta che contiene il disco mostra da una parte l'immagine surreale di un tuffatore senza schizzi, scattata al Mono Lake, in California, dall'altra un velo sospeso nel vento, in cui si intravede il profilo di una donna nuda. Quest'ultima era un’idea di John Blake, amico di Thorgerson, fotografata nel Norfolk (Inghilterra). David Gilmour ironizzò: “Abbiamo sempre pensato che Storm volesse scegliere location lontanissime solo per potersi divertire qualche giorno a spese nostre...”.
La confezione del disco comprendeva una cartolina illustrata a colori, con la scritta Wish You Were Here, allegata al vinile come fosse un saluto lontano.
Il tutto era costruito attorno al numero quattro: 4 erano le parole del titolo, 4 le immagini principali, 4 i segni zodiacali dei membri del gruppo (visibili sull’adesivo), e 4 gli elementi simbolici: fuoco, aria, terra, acqua. L’opera fu talmente apprezzata che ottenne una nomination ai Grammy Awards nella categoria Best Recording Package.
I risultati
“Wish You Were Here” uscì in Inghilterra venerdì 12 settembre 1975, scalando subito le classifiche in tutto il mondo. Le prenotazioni effettuate nel Regno Unito nelle settimane precedenti furono tali che ottenne il disco d’argento (60.000 copie) e il disco d’oro (100.000 copie) già il 1° agosto 1975, ben sei settimane prima della sua uscita ufficiale! La EMI inglese riuscì a soddisfare inizialmente solo il 50 per cento delle richieste. Negli Stati Uniti, l'album raggiunse il primo posto in classifica nella seconda settimana di settembre, diventando il “numero uno” più rapido della storia. Il disco fu un successo clamoroso anche in Italia, restando in classifica per tredici mesi.
Nonostante le vendite milionarie dei primi mesi, non eguagliò i numeri di “Dark Side”, ma nessuno si aspettava che potesse accadere. “Wish You Were Here” era un disco necessario, doloroso, fragile e potente. Musicalmente è un ponte ideale tra le sonorità pulite, luminose e spaziali di “Dark Side” e quelle oscure e minacciose di “Animals”. Quello del 1975 era il suono di una band che stava perdendo se stessa, ma che era riuscita nel miracolo di trasformare il proprio disagio interiore in arte.
A bocce ferme, guardando indietro alla loro discografia, soltanto due di loro lo indicarono come il lavoro migliore dei Pink Floyd. Lo fece Gilmour, che affermò: “Per me è probabilmente l’album più completo che abbiamo inciso”, seguito da Wright, vero mattatore del disco con i nove crediti sulle nove parti di “Shine On You Crazy Diamond”: “Mi fa piacere ascoltarlo, non mi capita spesso coi Pink Floyd”.
Waters oggi guarda a quel disco aggiungendo una nuova visione rispetto al passato: “Un’opera piena di rabbia, dolore e anche amore. Bisogna sempre cercare di andare oltre la rabbia e il dolore per scoprire la forza dell’amore”.