Corinne, voce degli Swing Out Sister: 'Eppure ho cominciato coi Sex Pistols...'

I giapponesi sono gente con la memoria lunga, da sempre incline a operazioni di recupero e conservazione musicale. Da quelle parti gli Swing Out Sister di “Surrender” (correva l’anno 1987) hanno ancora un bel seguito: ed ecco spiegato questo “Live in Tokyo”, compilation di canzoni pescate da un tour del 1999 nel Sol Levante, in circolazione già da qualche mese sul mercato import e che la edel italiana pubblica da noi il 13 gennaio prossimo. “In Giappone è più facile trovare occasioni per fare concerti, è uno dei pochi posti al mondo dove possiamo permetterci il lusso di portare in giro una band numerosa” spiega la “frontwoman” Corinne Drewery, 46 anni portati con charme e inappuntabile eleganza. Negli show citati, in formazione allargata a sette elementi, con loro c’era ancora Andy Connell, l’altro depositario del marchio. “E’ stata l’ultima volta, quest’anno nel tour che abbiamo fatto in Giappone, nel Regno Unito e in America è rimasto giù dal palco. Andy ama restarsene rintanato in studio di registrazione, curare suoni e arrangiamenti. Per lui suonare dal vivo era diventata una fonte di stress più che un piacere, la sua preoccupazione principale è che tutto funzioni, che ciascuno esegua alla perfezione la sua parte. Nell’ultimo tour è stato il nostro direttore d’orchestra, il maestro di cerimonie. E’ venuto a vedere i concerti e finalmente se li è potuti godere. E’ utile anche per noi avere tra il pubblico due orecchie in più, una persona che conosce perfettamente la nostra musica e che ti fa capire se il suono è perfetto, se la performance è buona e così via. Basta guardarlo in faccia per capire come stiamo andando…”. Connell ha così modo di seguire anche altri progetti: “Ha composto le musiche per ‘The knickerman’, un cortometraggio diretto da una mia amica, Sonja Phillips, che aveva già girato diversi videoclip. La storia si basa su alcune mie esperienze personali, ai tempi in cui crescevo in una piccola città nell’area rurale dell’Inghilterra del Nord”. E di occuparsi di produzione, come nel caso di questo disco. “Le case discografiche”, dice la Drewery riflettendo sulle difficoltà di “piazzare” l’album in giro per il mondo, “non amano molto i dischi dal vivo, forse perché di solito sono registrati in modo rozzo e perché si tratta di prodotti difficili da promuovere. Ma questo è diverso, abbiamo selezionato le esecuzioni migliori del tour e le abbiamo mixate con cura aggiungendo un pizzico di tecnologia di studio in modo che suonassero il meglio possibile. L’attenzione e la cura sono le stesse che avremmo messo in qualsiasi altro album, e gli arrangiamenti delle canzoni sono diversi dagli originali. E’ Andy che ama fare queste cose, sorprendere l’ascoltatore e mettergli dei dubbi su ciò che sta ascoltando. Fa parte del suo carattere antagonista, e a volte non è facile conviverci. Ma è questo che rende più interessante il prodotto finito, e quel che si ascolta qui è una versione più spontanea degli Swing Out Sister”. Nonché delle loro canzoni preferite, il pop soul di Barbara Acklin, il Philly Sound dei Delfonics e la canzone d’autore di Laura Nyro corretta Fifth Dimension che compaiono in scaletta. “E’ la musica che amo da sempre e con cui sono cresciuta”, si illumina Corinne. “In Inghilterra la chiamiamo Northern soul. Ma forse bisognerebbe dire Italian soul, dato che era la musica preferita dai mod e che i mod sfoggiavano etichette e marchi italiani sui loro scooter, sulle scarpe e sui maglioni. L’Italian style la faceva da padrone… Da piccola ho assorbito la musica che si ascoltava alla radio o in casa, Burt Bacharach e l’easy listening, e poi i Beatles e la Motown. In seguito mi sono innamorata di David Bowie, dei T.Rex e degli Slade, ma anche di Rod Stewart, di Elton John, di Michael Jackson e di Stevie Wonder: mia mamma aveva alcuni dei suoi primi singoli su Motown e ‘Songs in the key of life’ è il primo album che mi sono comprata quando ho avuto i soldi per farlo. Quando ho cominciato ad andare a quelle feste che duravano tutta la notte ho fatto la conoscenza con i dischi rari importati dall’America… Era un bel periodo per crescere, circondati da musica come quella”. Le cose cambiarono col trasferimento a Londra: “Sì, per frequentare l’art college. Il Northern soul, come dice il nome, era un fenomeno molto localizzato nel Nord dell’Inghilterra, e il Southern soul che si ascoltava nella capitale aveva più a che fare con il jazz e con il funk. A Londra, quando ci sono arrivata io, ascoltavano tutti il punk. Ho provato a farmelo piacere, ma non ci riuscivo proprio: niente melodia, solo rabbia e rumore. E ai concerti nessuno ascoltava la musica, tutti saltavano e sputavano a chiunque gli capitasse a tiro. Un po’ seccante, quando ti sei messa addosso il tuo abitino preferito… Beh, mi piacevano quelli che curavano la melodia e che stavano un po’ ai margini della scena, Elvis Costello e i Jam, che però erano considerati mod. Eppure la mia prima performance in assoluto è stata con una canzone dei Sex Pistols: era il giorno del college party, la band che doveva suonare cancellò lo show all’ultimo minuto e qualcuno chiese a me di salire sul palco. Non lo avevo mai fatto prima, io e un mio amico ci confezionammo dei costumi di scena cucendo insieme delle buste di plastica del supermercato, sul palco portammo con noi dei cestini pieni di carta igienica e di frutta e verdura marcia che avevamo raccolto in giro. Cantammo ‘God save the queen’ fumando sul palco e assumendo pose teatrali. A un certo punto cominciammo a lanciare la carta igienica, mele, pesche e pomodori sul pubblico, che non ci pensò due volte a restituirceli. Quella era la nostra interpretazione del punk, e io ne fui fiera perché mi sembrava di aver fatto qualcosa di abbastanza folle e creativo: non piacque al rettore del college, però, che ci minacciò di espulsione dalla scuola se non avessimo ripulito da cima a fondo quella bella sala vittoriana”. Il punk venne presto abbandonato, spiega la Drewery, perché “a noi, al contrario, piaceva far musica che inducesse calma e un senso di relax nella gente. Venivamo da Manchester, che ai tempi era una città piuttosto ostile, povera e rude. Con le nostre canzoni cercavamo di evocare immagini di bellezza, qualcosa come quei paesaggi alpini in cui ti trovi a passare durante un viaggio verso l’Italia… Se non ti trovi a vivere in un posto accogliente, a volte devi lavorare di fantasia”. Da lì, dice Corinne, arrivano pezzi come “Breakout” e “Surrender” (“il titolo è rubato alle Supremes, una delle mie band preferite”), quasi vent’anni fa… “Sono tanti, è vero, e quando abbiamo cominciato non avremmo mai immaginato di andare avanti così a lungo. Una carriera nella musica pop normalmente dura poco, come nel calcio… Cominci subito a chiederti cosa potrai fare in seguito. Ma la nostra non è mai stata musica per adolescenti, ha sempre avuto un qualcosa in più, un aspetto più sofisticato che in fin dei conti ne ha assicurato la longevità. C’erano il jazz, la fusion, il funk, il soul, non era solo un gusto del momento legato indissolubilmente agli anni ’80. Pensavamo oltre, cercavamo un suono classico che sarebbe potuto durare nel tempo. Noi forse siamo passati di moda, la musica no”. Da pop star ad artisti di culto, appunto. Una maledizione o una liberazione? “Più la seconda, direi. Io ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera quando ero già relativamente matura, a 25 anni. Non mi aspettavo niente di particolare perché solitamente si pensa che per fare musica pop si debba averne 16, di anni. Quando il primo album andò dritto al numero uno in classifica accadde contro ogni pronostico. Al successo seguì un periodo turbinoso di dischi, video, viaggi, concerti e promozioni, cinque anni senza stare mai a casa. Non c’era neanche il tempo per mettersi a pensare a cosa fare dopo, di attingere alle proprie esperienze personali per trovare ispirazione. Se non ne hai più, di esperienze personali, di cosa ti metti a scrivere? Della vita che passi sul tour bus, sul palco o in uno studio di registrazione? Oggi abbiamo conquistato un modo più naturale di essere creativi. Forse ci si addice quella grande frase di Orson Welles, ‘ho cominciato la mia vita in cima e mi sono fatto strada verso il fondo’… Lungi dal paragonarci a lui, ma è un bell’esempio da seguire: un artista che ha lottato contro il volere degli studios e che per restare fedele ai suoi principi ha accettato di ridimensionare le sue ambizioni. Dopo il primo hit la casa discografica ci chiese di sfornare al più presto un secondo album identico al primo. Ma noi rifiutammo, volevamo andare oltre. In quel momento impazzavano la techno e la acid house, tutti si dedicavano al ritmo martellante e noi decidemmo di tornare al passato alla riscoperta di una musica più calda e gentile: le colonne sonore di Morricone e di John Barry, il primo Bacharach, l’r&b del Brill Building primi anni ’60, le canzoni di Laura Nyro e di Jimmy Webb, che curò gli arrangiamenti di due canzoni. Lo abbiamo considerato come una specie di test, ai tempi, fare un album che non fosse alla moda. La casa discografica reagì con disperazione, convinta che avessimo distrutto una formula di successo. Ma siamo fatti così, e siamo contenti di aver seguito il nostro istinto: una porta ne apre sempre un’altra, la musica per noi è come una matrioska russa. Chi amava la nostra musica e aveva gusti più sofisticati ci è rimasto fedele; chi era attratto solo dalla confezione e dal pop facile ci ha abbandonato”. A proposito di confezione: che ne pensa la Drewery, ex regina del cool che ha studiato da stilista, della preponderanza dell’immagine nella musica di oggi? “Quando cominci per forza devi puntare anche sull’elemento visuale, è necessario per distinguersi dalla massa. E moda e musica sono sempre andati di pari passo, dai tempi del rock&roll agli anni ’60 delle minigonne e del taglio di capelli alla Beatles… Oggi, piuttosto, tutto sembra più costruito. In Inghilterra c’è Pop Idol che mette sotto contratto aspiranti stelle dello spettacolo prima ancora di avergli fatto aprire bocca. Il business viene molto prima della creatività, il che è un gran peccato per i giovani che perdono la possibilità di crescere come dovrebbero. Fortunatamente in ogni epoca ci sono artisti indipendenti che restano fedeli a se stessi. E oggi, con Internet, è molto più facile di prima trovare quel che si cerca, anche cose parecchio oscure. A me per esempio piace molto ascoltare musica sull’iPod: schiacci il tasto shuffle e c’è un elemento casuale e di sorpresa che ricorda quello degli albori della radio, quando le emittenti non seguivano un unico format ristretto. Anche per chi, come me, si mette difficilmente a comprare dischi nuovi è come riscoprire un modo diverso di riascoltare la musica preferita. Prima di Mtv i video uno se li creava nella propria testa, e io credo che prima o poi il cerchio si chiuderà. Torneremo a usare l’immaginazione”.
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