Lemon Twigs, come sopravvivere fuori dalle mode del tempo

L’intervista al duo formato dai fratelli D'Addario, di scena all’AMA Music Festival il 15 luglio

Tra le distorsioni garage dei Jet e il blues elettrico dei Black Keys, il prossimo 15 luglio sul palco dell’AMA Music Festival saliranno anche i Lemon Twigs. Il duo, formato dai fratelli D’Addario, newyorkesi cresciuti tra i fantasmi glam degli Anni 70, porteranno in scena quel loro suono un po' retromaniaco. La band tornerà così in concerto in Italia dopo il passaggio dello scorso dicembre per presentare dal vivo l’ultimo album “A dream is all we know” (qui la nostra recensione): “Il tour sta andando molto bene. I brani dell’ultimo album sono diventati naturali da suonare e ne stiamo testando molti di nuovi con il pubblico”, spiega il gruppo a Rockol pochi giorni prima del ritorno dalle nostre parti: “Hanno una qualità piuttosto immediata, quindi è stato bello vedere le persone entrarci dentro già al primo ascolto. Ci sta dando molta energia, che contiamo di portare anche in studio”. In attesa di vederli in azione a Romano d’Ezzelino, in provincia di Vicenza, ecco l’intervista ai Lemon Twigs, tra riflessioni sull’essere una rock band nel 2025 e l’istinto che guida ogni loro passo sul palco.

Cosa può aspettarsi il pubblico italiano dal vostro set? Avete in programma qualche sorpresa per questo show?
In un certo senso è un set più raffinato rispetto all’ultima volta che siamo stati in Italia. Ci saranno sicuramente brani diversi, alcune nuove cover e arrangiamenti modificati. Includeremo anche alcune canzoni dal mio disco solista, che non era ancora uscito quando abbiamo suonato in Italia l’ultima volta. Il flusso dello show è molto migliorato. È piuttosto energico.

Nel corso degli anni, come è cambiato il vostro approccio alle performance dal vivo, in particolare per quanto riguarda teatralità e arrangiamenti?
Ormai saliamo sul palco in modo un po’ più casual. Gli arrangiamenti sono molto più precisi. Ci sono più armonie. Ora tutti nella band cantano, il che ci aiuta molto a completare gli arrangiamenti pur mantenendo solo quattro strumenti. Ci piace il fatto che il suono possa essere pieno senza diventare confuso.

La teatralità è sempre stata una parte centrale della vostra identità. Quanto del tuo stile sul palco è istintivo e quanto invece è pianificato?
È praticamente tutto istintivo. Magari si sviluppano dei pattern naturali dopo aver fatto tanti concerti di fila, ma cerchiamo di non pianificare troppo.

“A dream is all we know” ha segnato un’evoluzione nel vostro sound. Come descrivereste questo cambiamento rispetto ai dischi precedenti? E su cosa vi concentrate maggiormente quando portate queste canzoni dal vivo?
È stato molto più divertente rispetto al disco precedente. “Everything harmony” del 2023 era molto incentrato sulle ballad ed aveva un tono più serio. Quest’ultimo è più spensierato, anche se abbiamo curato molto la produzione. Quando suoniamo queste nuove canzoni dal vivo, ci concentriamo soprattutto sul canto. Le parti strumentali ormai ci vengono in automatico, ma le voci richiedono sempre attenzione, se si vogliono far suonare bene le armonie.

La vostra musica fonde glam, classic rock e power pop — quel tipo di pop melodico e chitarristico che vive di Rickenbacker, arpeggi e una certa devozione da culto. Vi sentite parte di quella tradizione? E cosa vi affascina ancora di quel linguaggio? È sempre stato un genere di nicchia, quasi underground, eppure ogni tanto riesce ad arrivare al mainstream: secondo voi cosa lo tiene in vita e perché continua a risuonare oggi?
Continua a risuonare oggi perché, anche rimanendo in quei confini, si possono fare molte cose a livello armonico e melodico. Dal vivo molti dei nostri brani sono arrangiati per due chitarre, ma in studio ci piace usare anche strumenti orchestrali e tastiere. Però abbiamo scoperto che, soprattutto con la dodici corde, il suono delle chitarre ha una qualità quasi orchestrale, che riempie molto.
Ci sentiamo parte della tradizione di queste band pop chitarristiche, ma non pensiamo che il nostro materiale originale sia un omaggio a quel passato. Crediamo ci siano ancora molte nuove canzoni da scrivere, molte melodie interessanti da inventare. Non abbiamo l’ambizione di creare un “nuovo suono” da far emulare agli altri. Vogliamo solo essere fedele al suono della nostra voce e alle nostre tendenze melodiche e liriche, che crediamo siano uniche.

Il vostro lavoro spesso evoca gli anni ’60 e ’70, ma non suona mai come pura nostalgia. Come trovate l’equilibrio tra l’omaggio al passato e il restare ancorati al presente?
Cerchiamo sempre di scrivere melodie originali. Se ci accorgiamo che qualcosa è troppo simile a una canzone già esistente, proviamo a cambiarla. Ci piace combinare elementi sonori di dischi che amiamo, piuttosto che copiare il sound di un intero album. Ma il trucco principale è immaginarsi la canzone nella testa prima di registrarla, pensando a tutte le possibilità. Ogni brano può essere arrangiato in mille modi diversi e a volte è difficile trovare quello giusto. Spesso registriamo tutto in versioni diverse.
Non facciamo alcuno sforzo particolare per restare radicati nel presente. Tendiamo a evitare le influenze che suonano artificiali o raffazzonate, cosa che capita spesso nella musica che si produce oggi. Ma là fuori c’è anche tanta roba valida, quindi ascoltiamo semplicemente ciò che ci piace, come chiunque altro.

La nostalgia per voi è un motore creativo — una lente con cui reinterpretare il presente — o è più una scelta di stile? Guardare indietro cosa vi permette di sbloccare, artisticamente?
Per noi la musica degli anni ’60 e ’70 non sembra così lontana nel tempo. Sappiamo che il mondo del pop si muove molto in fretta, ed è successo soprattutto quando la tecnologia musicale ha iniziato a evolversi a un ritmo rapidissimo. Ma se la musica degli anni ’60 aveva un significato allora, e se la gente continua ad ascoltarla e ad amarla oggi, perché non dovresti lasciarti influenzare? E perché non dovresti farti influenzare soprattutto dalla musica guidata dalla chitarra, se sei un chitarrista?
È come un compositore classico che rifiuta di lasciarsi ispirare da Bach solo perché è “troppo antico”. Potremmo anche essere più influenzati da Billy Corgan che da Brian Wilson, visto che siamo di una generazione più vicina all’epoca degli Smashing Pumpkins, ma la sua voce è lontana dai nostri ascolti.

Come vivete oggi l’essere una “rock band”, in una scena dominata da pop, rap ed elettronica?
È piuttosto bello. Quando suoniamo ai festival, non possiamo dire di vedere molte altre band con un’attitudine simile alla nostra — il che, alla fine, crediamo sia un bene per noi.

All’AMA Music Festival condividerete la giornata con Black Keys e Jet — che rapporto avete con queste band come ascoltatori?
Non le conosciamo molto bene. Ma siamo davvero curioso di vederle dal vivo.

Se poteste scegliere qualsiasi artista, del passato o del presente, con cui condividere il palco per una serata da sogno, chi sarebbe e perché?
Una delle migliori live band di sempre sono stati i Beach Boys con Blondie Chaplin e Ricky Fataar nel ’72 e ’73. Quindi salire sul palco con loro sarebbe super divertente! Avevano un’energia pazzesca dal vivo e suonavano pezzi davvero interessanti. “The Beach Boys in concert” è uno dei nostri dischi dal vivo preferiti.

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