Film musicali: "Velvet Goldmine". Recensione, trailer, soundtrack

Ascesa e caduta di un idolo del glam rock

Velvet goldmine – 1998, Usa/UK

Eccoci nella Londra primi anni Settanta, dove l’ottimismo pop della “swinging” ha spinto sul “glam”, alzando di diverse tacche l’asticella della provocazione. Liberi tutti, o quasi: di truccarsi, sperimentare, abbattere le barriere doganali tra i sessi, trasgredire con stile e furore. Il “no future” del punk è ancora (un poco) lontano, il futuro è oggi, basta allungare le mani e smaltare le unghie. In questo mondo nuovo, così bizzarro da sembrare alieno, puoi diventare chiunque: forse addirittura te stesso. Siamo dalle parti di Ziggy Stardust, naturalmente. A David Bowie e alle sue incarnazioni è infatti ampiamente ispirato questo film di Todd Haynes - a partire dal titolo, “Velvet Goldmine”, che è quello di un suo brano di quegli anni. All’uscita il film non ebbe un grande riscontro, ma il tempo, anche se non lo ha trasformato in un cult, gli ha reso giustizia: provare per credere.

La storia è quella della folgorante ascesa e caduta di un immaginario idolo del glam rock, Brian Slade, interpretato da Jonathan Rhys Meyers. Nel 1974, al culmine del successo (raggiunto non senza qualche artificio), Brian inscena il proprio omicidio in pieno concerto; ma quella che doveva essere una trovata promozionale sfugge di mano, viene svelata e la star, caduta in disgrazia, esce letteralmente di scena. In fondo, l’immagine è tutto…

Il film racconta questa vicenda (e l’atmosfera del periodo) attraverso le ricerche di Arthur (Christian Bale), un giornalista che nel 1984, dieci anni dopo, viene incaricato di ricostruire l’accaduto. Per Arthur si tratta di una sorta di flashback, avendo lui stesso frequentato a suo tempo quel mondo, che appare ed è ormai lontano anni luce dalla piattezza e dal grigiore del suo presente. Nostalgia e disincanto sono quindi i sentimenti che fanno da controcanto alle piume e alle follie di Brian e dei suoi sodali, tra i quali spicca l’ambiguo Curt Wild (Ewan McGregor). E amarezza, anche, perché il mercato è cinico, il successo è fragile, e poi non si può fingere in eterno. O forse sì sì? Quando il confine tra realtà e finzione sfuma, quando le cose si confondono, puoi fermarti o devi cambiare maschera? Dov’è finito Brian? O meglio: chi è diventato, Brian? Quella di Arthur è un’indagine su di un passato che non tornerà ma che non vuole passare. Ne rimangono i fantasmi, i rimpianti. Resta da raccontarsi a favola di un paese dei sogni di cui al risveglio ci è rimasta tra le dita una spilla: poco, ma pur sempre una prova che un tempo qualcosa ci fu, qualcosa è stato vero. Per i nostalgici, “Velvet Goldmine” è archeologia del cuore, e gli scavi possono scendere in profondità fino a incontrare Oscar Wilde, qui assunto come scandaloso spirito guida.

Ewan McGregor canta e si muove come un ibrido tra Lou Reed e Iggy Pop. E Bowie, naturalmente, di cui però, nella pur ricca colonna sonora, non si trova nemmeno una canzone: fu lui a negare l’uso dei brani, ritenendo il film una distorsione della propria immagine. Così, “Velvet” si apre con un pezzo di Brian Eno (“Needle in the camel’s eye”, molto “bowiano”) e chiude sui titoli di coda con “Make Me Smile (Come Up And See Me)” di Steve Harley, perché: «Win or lose, it’s hard to smile».

Trailer

Soundtrack

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