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L'universo parallelo del Boss: cosa raccontano i "Lost Albums"

Una storia ufficiale, una che scopriamo solo ora: cosa contiene e cosa dice il box "Tracks II"
L'universo parallelo del Boss: cosa raccontano i "Lost Albums"

“Springsteen Station”: il dettaglio è apparentemente marginale, compare per pochi secondi nell’universo parallelo della serie TV Fringe di J.J. Abrams, il creatore di Lost. Il protagonista viaggia tra il nostro mondo e un altro, uguale quasi in tutto, ma dove la storia ha preso una strada diversa, e in New Jersey c’è una stazione dei treni dedicata al Boss. Chissà cosa è successo in quell’altro mondo alla sua musica e alla sua carriera.
E chissà cosa sarebbe successo se Bruce Springsteen avesse davvero pubblicato tutta la musica contenuta in "Tracks II - The Lost Albums", in uscita domani. Che tipo di carriera e di percorso avrebbe avuto Springsteen? Cosa sarebbe successo se avesse varcato una di quelle sliding doors? Porte verso altri universi che si presentano tutte assieme in questo Box, per raccontarci una storia parallela della musica di uno dei più grandi artisti rock.

Il box dei Lost Albums si presenta come una costellazione di dischi rimasti per anni inediti: progetti completati, abortiti, accantonati o rimontati nel corso di oltre quarant’anni di carriera. Raccontano un universo parallelo, ma anche una storia alternativa ma coerente con l’immagine che abbiamo di Springsteen. Un artista dall’enorme impulso creativo, che scrive e incide moltissimo. Uno sguardo che prima i fan già conoscevano ma solo attraverso il buco della serratura dei bootleg.In questi universi paralleli e in queste fasi della carriera, è sempre lo stesso Springsteen. Un artista spontaneo, istintivo, sincero, ma anche che ha una cura maniacale, quasi ossessiva, nelle sue scelte.  Lo stesso vale per la sua musica di studio, spesso frutto di impulsi creativi inarrestabili, sessioni in cui due o tre dischi vengono incisi contemporaneamente e in brevi periodi. Ma la musica vede la luce solo dopo uno studio dei dettagli, dopo infinite riflessioni sul valore delle canzoni e sull’effetto che possono avere sui fan e sulla reputazione di Springsteen stesso.

La storia di Bruce secondo Bruce

“Ho sempre pubblicato i miei dischi con grande attenzione, assicurandomi di raccontare storie che avessero una loro coerenza, l’una dopo l’altra”, dice Springsteen.
La storia che Bruce Springsteen ha raccontato – a se stesso e al suo pubblico – è quella di un “working class hero” autodidatta, cresciuto nel New Jersey, in una hometown piccola, accogliente ma anche soffocante, tra chiese cattoliche, bar e una famiglia con un padre complesso e una madre mitologica, sullo sfondo di un sogno americano sempre presente ma mai compiuto.
Una mitologia potente, in buona parte costruita ad arte, come i suoi personaggio “La città da cui vengo è piena di piccoli impostori, e io non faccio eccezione”, raccontava nella sua autobiografia, ammettendo di aver passato la vita a raccontare i lavoratori americani, ma anche di non avere ha mai lavorato 5 giorni a settimana prima di quando ha avuto uno spettacolo teatrale in replica ogni giorno a Broadway.
Springsteen stesso lo conferma nelle note introduttive ai Lost Albums, quando ammette di non aver pubblicato questi dischi perché “non si inserivano coerentemente nel mio arco narrativo creativo”. La sua discografia ufficiale è stata curata “con grande attenzione”, proprio per “dare forma a un’immagine chiara nella mente dei fan di chi ero e dove stavo andando”. Ma i Lost Albums rivelano che esisteva anche un altro Springsteen. Non meno vero, solo meno compatibile con il racconto pubblico.

L'universo parallelo: sette album, sette Bruce

I Lost Albums costruiscono un’altra storia, altrettanto coerente: quella di un artista inquieto, diviso, mai pienamente soddisfatto delle sue scelte ufficiali. Un artista che, mentre costruisce un album, ne registra un altro, certe volte anche due. Che mentre prepara Born in the U.S.A., registra un doppio disco più intimo e vicino al folk, rimanendo emotivamente più legato a Nebraska. Che mentre si spengono le luci degli stadi, compone in solitudine canzoni ipnotiche, minimali, destinate a un film mai girato. Non sono una semplice raccolta di scarti o outtakes, ma la testimonianza di percorsi creativi paralleli, spesso messi da parte per non interferire con la narrazione ufficiale.
Se il canone racconta Bruce come storyteller dell’America profonda, dei suoi sogni e delusioni, il box ci mostra il suo lato più sperimentale, riflessivo, ironico, a volte cupo, a volte pop in modo quasi provocatorio. C’è quasi un desiderio costante di scappare dall’identità che lui stesso ha contribuito a creare.
La storia è quella di un artista che si interroga costantemente su chi è, da dove viene e dove può andare. Una ricerca continua, che passa per personaggi alla deriva, uomini in fuga dal proprio passato, voci che parlano da margini geografici ed emotivi. La coerenza non è stilistica, ma tematica: ogni album racconta una tensione tra il desiderio di radicamento e quello di evasione, tra il bisogno di redenzione e la paura del fallimento. Ed è questa tensione che tiene insieme i sette dischi.

LA Garage Sessions '83 è un ponte sospeso tra Nebraska e Born in the U.S.A.: un disco folk-rock che mostra un Bruce ancora immerso nella narrazione minimalista e oscura del primo, ma già tentato da un ritorno alla forma canzone classica, con chitarre, synth e una band in background. È un disco inquieto, che cerca direzione.
In Streets of Philadelphia Sessions, troviamo il Bruce più spiazzante: elettronico, solitario, influenzato dall’hip-hop e dai loop ritmici della West Coast. È una risposta creativa a un momento di crisi personale e artistica, dove la voce a tratti è filtrata, sussurrata, quasi nascosta. Ma anche qui, dietro la forma nuova, restano le domande di sempre: la fede, l’identità, la perdita.
Faithless nasce come colonna sonora per un film mai realizzato. Eppure, è tra gli album più toccanti: sette canzoni e quattro brani strumentali che evocano paesaggi interiori e spirituali, scritti da un uomo solo con la sua chitarra e i suoi fantasmi. La narrazione è quella di chi ha perso tutto e cerca, senza clamore, di ritrovare un senso.
Con Somewhere North of Nashville torniamo nel territorio del country, ma filtrato da una malinconia leggera, quasi beffarda. Inciso negli stessi mesi di The Ghost of Tom Joad, è il lato luminoso, ironico, disilluso di quella stagione. Le canzoni parlano di poliziotti prossimi alla pensione, cantanti falliti, amori dimenticati: figure che non si arrendono ma nemmeno si illudono.
Inyo è invece il disco più politico e narrativo: una mappa del confine tra Stati Uniti e Messico, in cui Springsteen si confronta con migrazione, violenza, memoria. È un concept album vero e proprio, dove ogni canzone racconta un frammento di quell’epica moderna. C’è la soldadera, il giardiniere, il ragazzo hopi, il trafficante, il poliziotto stanco: è lo Springsteen che osserva e racconta senza giudicare, come un cronista empatico.
Twilight Hours ci mostra un Bruce diverso: romantico, orchestrale, raffinato. Un crooner malinconico alla Bacharach, alla Orbison. Le canzoni parlano d’amore, perdita, tenerezza, in uno stile inedito ma non incoerente. È la voce adulta di chi accetta la propria fragilità, e la mette in musica.
Infine, Perfect World è il disco meno compatto, ma il più rock. Una raccolta di brani scritti in epoche diverse, legati dal filo sottile  della voglia di suonare. Ci sono pezzi energici scritti con Joe Grushecky, ballate gospel, brani folk. Il tono è disordinato, ma sincero. È Bruce che si guarda indietro senza costruzioni, che lascia spazio a ogni voce, anche a quelle che non sapeva dove collocare.

Insieme, questi sette Lost Albums raccontano un artista più sfaccettato e profondo di quanto la discografia ufficiale potesse mostrare. Non contraddicono la narrazione che conosciamo: la ampliano, la complicano, la umanizzano. Sono i capitoli nascosti di una storia che credevamo di conoscere.

La voce di Bruce è fatta anche di silenzi

Lost Albums ci dice che Bruce Springsteen è un artista che ha costruito la sua voce non solo con ciò che ha pubblicato, ma anche con ciò che ha scelto di tenere nascosto. I silenzi, gli archivi, le seconde versioni, le canzoni dimenticate non sono “scarti”, ma sono tracce di un pensiero musicale più ampio, complesso e stratificato.
Un artista è anche ciò che non pubblica.
Bruce, come nella scena di Fringe, ha sempre vissuto tra due universi: quello delle canzoni che conosciamo e quello di quelle che, per decenni, ha tenuto da parte. Ora che possiamo ascoltarle, ne comprendiamo meglio anche il silenzio.

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