Luché, al listening party de “Il mio lato peggiore”, nella sua Napoli, ha fatto ascoltare il progetto, curiosamente, partendo dalla seconda metà. Non è un dettaglio. È la volontà di dare un preciso racconto all’album che da tracce intime sulla solitudine e su un vuoto esistenziale che diventa una pistola alla tempia, si incendia, si ribella al dolore, fino ad arrivare alle canzoni più spudorate, sfacciate ed energiche, che incarnano il vero spirito rabbioso del nuovo disco. “Il mio lato peggiore” non vuole rimanere in mezzo. Non vuole lasciare tiepidi. Non vuole parlare a bassa voce. È un album che, attraverso sedici tracce, volutamente ha l’ambizione di scuotere, anche di dividere. Che un rapper, una colonna portante della cultura hip hop italiana, a 44 anni, sia ancora animato dal desiderio di “non lasciare indifferenti”, è la sua vittoria, ovvero la sua identità, come racconta in questa lunga intervista sul disco e sul ruolo di un artista oggi.
Cosa ti spinge oggi a fare un nuovo disco?
Il calore della gente. Lo faccio per la gente. Io cerco di non avere aspettative, sono sincero.
Vieni dalla reunion dei Co'Sang e ancora prima da un disco solista nel 2022, “Dove volano le aquile”. In che momento della tua carriera arriva “Il mio lato peggiore”?
Io oggi mi sento esattamente come il disco. Sono più grintoso, più arrabbiato anche per tutto quello che è successo dopo “Dove volano le aquile”: le critiche, le cose che si dicono su di me nonostante non mi si conosca. Oggi tutti possono dire quello che vogliono. Arriva anche dopo un periodo, a livello privato, difficile e turbolento: un matrimonio, un divorzio…
È solo una questione di rabbia?
No, anche di tempi. “Dove volano le aquile” era nato in mezzo alla pandemia. Eravamo chiusi in casa, pieni di paranoie. “Il mio lato peggiore” invece è figlio di un'esistenza iper-attiva, di viaggi, di lavoro, di investimenti tra l’Italia e l’America. Nel disco racconto le bravate e il mio modo di vivere, molto punk, ma anche i momenti più oscuri e di crisi, che per fortuna ho superato.
Come nella cover sfocata: non vuoi e non puoi essere una sola cosa?
Il racconto più oscuro, per me, era necessario rimanesse nel disco. Perché sono umano. La gente deve capire che si può essere più cose, siamo composti da più frammenti. L’album è spregiudicato, volevo dimostrare che non mi abbatto, che credo in me, che valgo e mi difendo, per farlo al meglio era importante che raccontassi anche gli aspetti più bui. Questo, in generale, è un album di carattere. Riparto da “Si vince alla fine” di “Dove volano le aquile”.
“Il mio lato peggiore”, il pezzo di apertura, è una rappata serrata.
Perché mi sento così. Volevo e voglio sfogarmi. Non vedo l’ora di farlo live, di vedere la gente che salta. Poi, ovviamente, nel progetto ci sono anche pezzi d’amore, più introspettivi etc. Ma il vero cuore dell’album è la fotografia e la ricerca di una vita più energica.
Stai, ormai da tempo, lavorando sui pezzi pensando ai live?
È così. Già da quando scelgo il beat, ho la visione di come il brano finale potrebbe essere in live e come potrebbe reagire il pubblico. Mi immedesimo nel pubblico. È un approccio che si acquisisce con l’esperienza e che nel tempo diventa fondamentale: fare pezzi pensando al tour.
Possiamo definire la rabbia presente nel disco “propositiva”?
È esattamente quello che voglio arrivi. È una rabbia sorta per abbattere i muri. “Il mio lato peggiore” significa essere una persona senza filtri, con le sue idee. Anche scomode, certo, ma portate avanti per crescere, per generare un dibattito. In una società così piatta, così qualunquista e leggera per non pensare, preferisco essere “pesante”. Questa società ha bisogno di leader, ha bisogno di persone con esperienza che raccontino il proprio vissuto e possano essere di ispirazione. Io sono un anello di una catena: vengo ispirato e spero di essere di ispirazione.
E chi è in disaccordo con il tuo racconto?
Oggi in realtà c’è bisogno soprattutto di questo, di uno scontro-confronto, sempre basato sul dialogo. La violenza fisica non c’entra niente. È così che nascono le idee.
Nel film “Fight club” viene detto che per fare una frittata bisogna spaccare delle uova. Tradotto: è dallo scontro che nasce qualche cosa di buono.
Servono contenuti forti, persone che rischino. Album che tentino di lasciare un segno. È tutto troppo piatto. E ti dirò di più: serve anche la paura di sbagliare e di essere criticati. Anch’essa è un grandissimo motore. Non vedi? Stiamo diventando tutte vittime silenti che subiscono la direzione del mondo. E invece dovremmo farci sentire per imprimerla.
È il ruolo dell’artista?
Sì, che non ha solo il diritto di scuotere. Per me oggi ha il dovere di farlo. Restando se stessi, ognuno a suo modo.
Lo skit “Lettera alla pistola alla mia tempia” e il pezzo successivo “Se non ci fosse la rabbia” rappresentano uno dei momenti più intensi e profondi del progetto.
Lo skit l’ho scritto nel momento peggiore. Stavo malissimo. Mi sentivo molto solo a livello di società. Vedevo i riflettori puntati solo sugli adolescenti che fanno i numeri. Vedevo andare avanti le copie. Mi dissi: “O cambio o…divento vittima di qualche cosa di più grande di me…”. Sono cambiato. Ho trasformato quel vuoto in poesia, per questo lo skit l’ho recitato. Ma è tutto vero. Mi sono detto: concentrati su te stesso, ricordati perché fai musica. “Se non ci fosse la rabbia” è immediatamente dopo perché è la reazione a quanto ho vissuto.
Come si esce da quella negatività?
Ho iniziato un percorso molto profondo di terapia…che non è quello con lo psicologo normale…che mi ha riprogrammato. Oggi mi vedo in modo diverso. Mi andava di condividere quel vuoto perché magari qualcuno, che sta vivendo qualche cosa di simile, ascoltando alcune parti del disco si fa forza e tira fuori una nuova energia. L’album è sfacciato e il perché è raccontato proprio grazie a questi pezzi.
“La mia vittoria” con Giorgia e Marracash come è nata?
In un primo momento avrei voluto Marra su “Buona fortuna”. Con Marra abbiamo tante cose in comune. Con “È finita la pace” ha preso una posizione netta e chiara. E per me è stato importante. Poi, però, ragionando con CoCo, gli ho presentato “La mia vittoria” perché secondo me gli permette di continuare il discorso iniziato negli ultimi dischi. Giorgia rappresenta proprio la vittoria che ci parla.
Qual è la “tua” vittoria?
Non è legata al risultato. La vittoria è avere una propria identità, come dice Marra, è quello che abbiamo costruito nella nostra vita.
“Incredibile” con Kaash Paige è un pezzo diverso.
Sono un suo grande fan. L’ho conosciuta per le sue collaborazioni con Don Toliver e Travis Scott. Le ho scritto per farle i complimenti, lei mi ha risposto. È nato un rapporto. Il brano l’abbiamo fatto a distanza. Non è un pezzo con il solito rapper trendy, magari americano. È qualcosa di ricercato, nel segno di uno stile, di una qualità e ha una visione internazionale. Si possono fare canzoni anche senza inseguire i numeri e staccandosi dalla tradizione, uscendo dai recinti: questo è il messaggio.
Scrivi mai in inglese?
Sì, e mi piacerebbe fare un progetto intero in inglese. E lo farò. Non per i numeri, ma per me. Lo farei più melodico, non per forza rap. Mi piacerebbe anche scrivere per gli americani.
Tu hai un lato melodico, da sempre, molto spiccato e hai rinnovato la canzone d’amore nel rap. Hai mai fatto un pensiero su una possibile partecipazione a Sanremo?
Sì, come no, c’ho pensato diverse volte. Sono diviso sulla questione. Da una parte credo che sarebbe interessante per me entrare in quel tipo di mainstream. Non vincerei certamente, ma credo che farei bene, allargando la fanbase. Quei riflettori sono indubbiamente importanti. Quando partecipai come ospite di Geolier l’anno scorso, giorni dopo, allo stadio, a vedere il Napoli, avevo tutti gli occhi della gente addosso, mi avevano visto in tv.
L’altra faccia della medaglia?
Dall’altra penso: il mio lifestyle rap, il mio modo di essere, verrebbe capito? A quale pubblico estenderei, se partecipassi, la mia musica? Temo che quello del Festival non sia un pubblico ricettivo nei confronti del rap, sia più orientato al pop. E questo potrebbe confondere chi già mi segue. È un po’ critica la faccenda. Lo potrei fare il Festival, sì, ma non vorrei mai perdere la mia identità rap. Avrei potuto andare al Festival con “Un milione di mani”, ma poi quel tipo di pubblico avrebbe capito un mio brano più scorretto come “Miami Vice”? La verità è che ci vorrebbe un Sanremo del rap. Una manifestazione in tv in cui portare brani rap veri, portare la nostra roba per davvero.