Mark Eitzel, uno dei grandi segreti del cantautorato americano
Se esistesse una categoria o una playlist "I segreti meglio custoditi della musica americana", Mark Eitzel andrebbe di diritto tra i primi artisti. Probabile che non abbiate sentito parlare di lui, e neanche degli American Music Club: una carriera minore nel rock indipendente tra anni '80 e '90, una reunion negli anni zero. Anche da solista è stato un po’ discontinuo: il suo ultimo album è del 2017, otto anni fa.
Però è tornato: la prossima settimana sarà in tour in Italia con tre concerti: il 7 aprile al Dorado di Torino, l’8 al Bellezza di Milano, il 9 all’Arci Progresso di Firenze: un’occasione per (ri)scoprirlo,
Gli American Music Club
Eitzel ha fondato gli AMC a San Francisco nel 1983, con il chitarrista Vudi, il bassista Dan Pearson, il percussionista Matt Norelli e il tastierista Brad Johnson. È con il secondo disco, “California” del 1988, che gli AMC iniziano a guadagnare un seguito di culto, soprattutto in Europa: arrivano a firmare con una major per “Mercury” del 1993, ma non escono mai dall’ombra. I primi anni '90 sono l'epoca del rock che torna in classifica, trainato dal fenomeno del grunge, ma la band fallisce il salto mainstream: le canzoni sono intimiste, tra slowcore e post rock, con una scrittura unica, tra poesia, cinismo e piccole tragedie raccontate con ironia; troppo distanti da quello che funziona alla radio e su MTV. La voce, di Eitzel poi: unica, sussurrante, ma anche da rocker quando serve - comunque lontana dai toni muscolari dei frontman rock di quel periodo.
La band si scioglie nel ‘94: si riformerà a metà degli anni 2000, ma anche quell’avventura durerà solo un paio di album. Chi conosceva gli American Music Club, però, li amava alla follia.
Una carriera solista tra alti (pochi) e bassi (molti).
Il percorso solista di Eitzel inizia già nel 1991 con “Songs of Love Live”, una registrazione dal vivo, voce e chitarra delle canzoni degli AMC - una cosa simile a quella che probabilmente vedremo in questo tour. Il vero esordio solista in studio arriva nel 1996 con “60 Watt Silver Lining”, dove si sposta verso una dimensione più da crooner.
Nel 1997 prova di nuovo il grande salto: “West” esce per la Warner ed è frutto di una collaborazione con Peter Buck dei R.E.M., che in quel periodo sono all’apice del successo. Rimane un altro album di culto, e poco di più.
Da qui in poi una serie di album che esplorano diverse direzioni musicali, spesso anche un po’ perdendosi, tra cui “The Invisible Man” (2001) e “Music for Courage & Confidence” (2002), quest’ultimo composto da cover. Dopo la reunion degli American Music Club tra il 2004 e il 2008, torna a fare il solista, ma il suo percorso si perde per nuovammente strada, con dischi minori, a causa anche diversi problemi di salute.
il suo ultimo album, "Hey mr Ferryman" del 2017, è forse la sua miglior opera solista: prodotto da Bernard Butler (ex-Suede), ha il suo marchio di fabbrica: voce confidenziale, potente, su canzoni scritte quasi sempre su chitarra acustica, ma che Butler veste alla perfezione, con arrangiamenti complessi ma mai invadenti.
Una rivista inglese lo definì erede di Leonard Cohen - esagerando ma non troppo: il tono caldo, la scrittura di un’umanità disarmante. Se solo avesse avuto qualche riconoscimento in più, magari anche la carriera sarebbe stata più continua - o viceversa, invertendo l’ordine dei fattori.
In Italia lo rivedremo in versione acustica: una voce e una chitarra e una manciata di grandi canzoni, tra le migliori che non avete mai sentito.