Nella musica italiana ci vorrebbero più Riccardo Sinigallia

A undici anni da “Prima di andare via”, l’outsider torna a Sanremo. Per chiudere un cerchio.

«Quella del cantautore, secondo me, non è un’attività che comprende la televisione, la radio e i giornali. È un’altra cosa». L’essenza di Riccardo Sinigallia - e la sua lezione, anche - sta tutta qui, in queste poche parole. Quando nel 2018 il fotografo e videomaker Fabio Lovino gli dedicò un documentario, lo intitolò “Backliner”: sintetizzava tutta l’attitudine del cantautore romano, un anti-fenomeno, un artigiano vero che all’esposizione mediatica ha sempre preferito altre dimensioni, a partire dallo studio di registrazione. Nel suo, un’isola felice che si trova sulla collina di Monte Mario, a Roma, è passata buona parte della musica italiana degli ultimi vent’anni: ci sono nati i dischi dei Tiromancino (se “La descrizione di un attimo”, l’album di “Due destini”, fu un best-seller, il merito fu anche del suo tocco magico), di Max Gazzè, di Niccolò Fabi, di Coez e di Motta, le colonne sonore dei film di Renato De Maria, Gabriele Salvatores, Ginebra Elkan, le hit di Mina e Celentano (per i quali ha firmato “Amami amami”, l’adattamento in italiano di “Ma’agalim" del musicista israeliano Idan Raichel). Di lui Coez, per il quale nel 2013 produsse l’album “Non erano fiori”, quello che segnò la svolta cantautorale del rapper e rappresentò un cambio di paradigma nella canzone pop italiana (anni prima dell’exploit dell’indie), ha detto: «È l’unico produttore che considero anche un po' come un mentore. Lo so che mentore è una parola grossa, ma Riccardo è uno di quelle persone che nel percorso di un artista, oltre al disco in sé e per sé, al progetto, ti lascia un bagaglio un po' più a lungo raggio». Deve averlo capito anche Brunori Sas, che a Riccardo Sinigallia ha scelto di affidare la produzione del suo nuovo album “L’albero delle noci”, intitolato come la canzone che il cantautore calabrese presenta in gara al Festival di Sanremo. Nella serata delle cover ha scelto di condividere il palco proprio con lui (canteranno “L’anno che verrà” di Lucio Dalla insieme a Dimartino), permettendogli di fare pace con un capitolo emblematico del proprio passato.

Già, perché proprio a Sanremo, nel 2014, si consumò una delle pagine più dolorose della storia di Riccardo Sinigallia. A quel Festival il cantautore, musicista e produttore romano ci arrivò da outsider. Fabio Fazio, conduttore e direttore artistico di quell’edizione, puntò su di lui come il più naïf degli artisti di un cast ultranaïf, Rai3-oriented, di cui oltre a personaggi pop come Arisa, Noemi, Francesco Renga e Giusy Ferreri facevano parte artisti come Raphael Gualazzi e The Bloody Beetroots, Renzo Rubino, i Perturbazione, Antonella Ruggiero, Giuliano Palma, Ron. Il cantautore romano aveva da poco firmato un contratto con la Sugar di Caterina Caselli, che lo “sponsorizzava”. Il palco dell’Ariston, in realtà, lo aveva già calcato una volta, quattordici anni prima, quando nel 2000 si era presentato insieme ai Tiromancino in gara tra le “Nuove proposte” con “Strade”: erano arrivati secondi (dietro a Jenny B, lanciata dai Gemelli DiVersi con la loro rivisitazione di “Dammi solo un minuto” dei Pooh). Da regolamento, i big di quell’edizione del Festival dovevano presentare al pubblico due brani inediti e dopo la prima esecuzione in tv sarebbero state le giurie a scegliere con quale dei due gli artisti avrebbero effettivamente gareggiato alla kermesse. Sinigallia scelse due brani dell’album che di lì a poco avrebbe pubblicato per la Sugar, “Per tutti”: “Prima di andare via” e “Una rigenerazione”, entrambi firmati insieme al suo braccio destro Filippo Gatti. Passò “Prima di andare via”. Ma alla vigilia della finale una notizia segnò in maniera indelebile la partecipazione di Sinigallia al Festival: si scoprì che “Prima di andare via” era stata già suonata in pubblico prima del Festival, dunque non era un brano inedito. Sinigallia aveva fatto ascoltare il brano durante uno show, a un centinaio di persone. La sentenza fu inappellabile: escluso. «Un peccato di ingenuità, in assoluta buona fede», commentò lui, che si assunse tutta la responsabilità della vicenda. «La mia casa discografica non lo sapeva e io non gliel’ho detto. Non farò ricorso, ma “prima di andare via” voglio ringraziare tutti perché qui sono stato benissimo», fece sapere.

“Prima di andare via” è diventata un piccolo culto della musica italiana degli ultimi vent’anni. Gabriele Muccino nel 2018 la inserì nella scena finale del suo “A casa tutti bene” e l’anno seguente finì anche nella colonna sonora di “Magari” di Ginevra Elkann: «Ho molto riscontro da parte dei registi, degli attori e dei produttori. Evidentemente sentono una vicinanza culturale ed espressiva con la mia musica. Quando lavoro su una canzone la tratto un po' come fosse una cosa drammaturgica e forse loro riconoscono questa cosa, un po' old style». Dopo quella partecipazione al Festival di Sanremo, Sinigallia si è rinchiuso in un silenzio discografico lungo quattro anni, lontano dai social, dalla tv, dal bisogno di farsi notare a tutti i costi (continuando però a lavorare, da vero artigiano, nel suo laboratorio - tra le altre cose ha portato avanti il progetto Deproducers, il collettivo formato insieme a Max Casacci, Vittorio Cosma e Gianni Maroccolo): «La cosa più difficile è staccarsi dall'idea di te stesso come artista che deve in qualche modo fare un disco. Non è che se non fai un disco la tua vita non ha senso, eh. Tutt’altro».

Quando nel 2018 è tornato sulle scene discografiche con “Ciao cuore”, a Rockol ha raccontato, ricordando quel Sanremo: «Quello che è successo è stato molto fastidioso. Forse è stata anche una questione di karma. Sento che il mio, di karma, è quello di essere l'escluso di questa storia della musica italiana degli ultimi vent’anni. Prima di Sanremo avevo pensato di smettere. Quell'album, “Per tutti”, era finito da due anni, ma a nessuna casa discografica interessavano le mie cose. Ai concerti venivano quindici persone, di cui otto annoiate. Mi sentivo amareggiato, mi sembrava ingiusto rispetto a quello che vedevo intorno a me. Al tempo stesso, però, mi dicevo che faceva parte del percorso che avevo scelto». Ce ne vorrebbero di più, di Riccardo Sinigallia.

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