Gianni Morandi, Lodo (Lo Stato Sociale): “Una pasta di ragazzo”
A parte le letture di Marx e la ballerina Paddy Jones, mattatrice ultraottantenne di “Una vita in vacanza” che Morandi non mancò di invitare a cena, esistono diverse cose che legano il Gianni nazionale a Lodo Guenzi. Ce ne parla proprio Guenzi in una pausa teatrale fra le repliche di “Molto rumore per nulla”, e quella più lunga de Lo Stato Sociale.
Lodo, il primo incontro con Morandi te lo ricordi?
«Mi ricordo meglio il secondo, particolare, al Festival di Sanremo 2018. Lui duettava con Tommaso Paradiso e ci siamo trovati sul tetto di un albergo. La cosa strana è che la volta dopo, mentre giravamo il nostro documentario, Morandi l’ho incontrato di nuovo sui tetti di Bologna. Dobbiamo avere un’attrazione per i tetti, tipo Catwoman»
Il documentario era “La piazza della mia città - Bologna e Lo Stato Sociale”, con Morandi ospite (la foto dell'articolo è uno screenshot dal documentario). Quando la Soprintendenza vi negò Piazza Maggiore per il concerto, fu lui a schierarsi con voi: “Sono fortissimi, più famosi di noi dinosauri. Devono suonare”.
«Già aveva fatto una cosa ancora più raffinata, per un vecchio progetto del gruppo. Prima di andare a Sanremo, volevamo far ballare Morandi in un nostro video, come Christopher Walken in quello di Fatboy Slim (“Weapon Of Choice” ndr). Proponemmo a Gianni “Buona sfortuna” e lui disse: «Va bene, però io voglio fare una cosa da Stato Sociale. Non fatemi comparire su un pezzo pop, ma su “Mi sono rotto il cazzo”!»
Perché non andò in porto?
«Ebbe un problema di salute e rimandammo. Però abbiamo molto apprezzato la risposta. Indicava anche la sua conoscenza musicale, una certa preparazione. In genere, superati i 40 anni, è difficile essere curiosi verso i nuovi».
E quando vi siete conosciuti, che impressione hai avuto?
«Una persona squisita. A Bologna si dice “una pasta di ragazzo”. Gianni ha la capacità di generare empatia, di attraversare le epoche senza bisogno del “maledettismo”. Io questa capacità non ce l’ho. Edmondo Berselli divideva la carriera in tre fasi: 1) bella promessa 2) solito stronzo 3) venerato maestro. Io sono nel pieno della seconda fase. Non provo che ammirazione per chi come Gianni sta nella terza, senza nemmeno passare per la seconda. Morandi non sta sul cazzo a nessuno».
Avete un tratto bolognese comune?
«Credo sia questo: a Bologna non puoi permetterti di fare il fenomeno, anche se sei un fenomeno. E Morandi lo è. La città non ti concede di tirartela, di costruire in vita il monumento a te stesso. È un buon approccio e, tra l’altro, allunga le carriere. Bologna è commistione. Ci vivono un sacco di artisti, ma frequentano lo stesso bar degli studenti e dei lavoratori».
Ai tempi del Cenacolo e della RCA funzionava così.
«Fortunatamente anche io ho fatto parte di una “scena”, quell’ondata indie degli anni 10 del 2000. A differenza degli artisti della vecchia RCA, non diventavamo i padroni del mondo, restavamo fuori da tv, radio e major, ma le idee nascevano ugualmente da incontri e scambi: una sera ti ritrovavi con Vasco Brondi, un’altra a casa di Dente. Tutti insieme. Così come Dalla, Morandi, Guccini si ritrovavano da Vito o all’Osteria delle Dame. C’è la musica sì, ma le storie escono tra i portici e le trattorie. Oggi siamo tutti più isolati. Quella magia è riproducibile se ricominciamo a far succedere le cose fuori di casa».
La tua canzone preferita di Morandi?
«Sono appassionato di un mash up di “In ginocchio da te” e “Toxicity” dei System Of A Down. Un capolavoro».
A casa tua si ascoltavano le sue canzoni?
«No. Mio padre nello studio aveva qualche sua cassetta di fine anni 80, “Bella signora”, cose simili. Ma le canzoni di Gianni le ricordo dall’infanzia, giravano sempre intorno, come fossero lì da sempre. Questo mi colpisce».
Cosa?
«È molto difficile sopravvivere a un successo che ti travolge in giovanissima età. Mi vengono in mente la mia amica Ambra, o Cesare Cremonini. Quanta fatica, quante scelte, prima di guadagnarsi una credibilità? Immagina Morandi sedicenne. Un pubblico così vasto, generalista, tende ad appiattirti, a incasellarti. Sei il romantico, o il serio, o il buffo. Se cambi, ci vuole impegno per farti accettare. Guarda Gaber, che si spostò dalla tv al teatro, e impiegò tempo per riposizionarsi»
Nei 70 Morandi venne aspramente contestato. Che poi, se vai a vedere, cantava “C’era un ragazzo” contro la guerra in Vietnam nel 1966, ben prima dei cantautori impegnati.
«Era un pubblico in parte più attento, che chiedeva coerenza, e in parte intransigente. Pensiamo al processo a Francesco De Gregori. Anche lui come Morandi si fermò per qualche tempo. Ma poi, come diceva il nostro discografico Matteo Romagnoli, che aveva il rapporto più stretto con Gianni, le canzoni non smetti mai di scriverle, anche se fai altro nella vita. La musica ha la capacità di scorrere là sotto, come un fiume carsico».
Morandi rimerse dalla crisi con “Uno su mille”, dove c’era quella frase “Tu non sai che peso ha questa musica leggera”. Lo Stato Sociale cantava “La musica non è una cosa seria”.
«Non sono per niente distanti. Esistono espressioni di sé costruite sulle nuvole, astrazioni che ti obbligano a confrontarti con i demoni. C’è un livello di dolore che metti nelle canzoni e che si sente aldilà delle note e delle parole. Può uscire un brano reggae, country, allegro, d’intrattenimento, politico, ma il sottotesto arriva lo stesso. Se hai sofferto, la verità esce comunque. È una magia delle canzoni».
Cosa ti colpisce di Morandi oggi?
«Trovo quasi impossibile che uno riesca a navigare per così tanti anni in ambito nazionalpopolare come fa lui, senza mai perdere eleganza e semplicità. Io il nazionalpopolare l’ho toccato, me ne sono allontanato, ogni tanto mi riaffaccio. E poi provo una forte ammirazione per la sua straordinaria dedizione, quell’andare avanti a costruire un percorso con amore e rispetto verso il proprio mestiere. C’è qualcosa di molto più puro rispetto a come siamo abituati a ragionare oggi».
Che intendi?
«Gianni potrebbe riempire uno stadio ma decide di fare magari trenta repliche al Teatro Duse. È molto più impegnativo, anche fisicamente, ma resta più vicino alla gente. Quella cosa lì diventa una forma di radicalità. Diventa quasi indie. Per me diventa come i Fugazi».