Gavin DeGraw: “C’è solo una cosa che non passa di moda: l’amore”

Vent’anni fa spopolò con “Chariot”. Oggi ricanta la sua hit. Stasera sarà a Milano: l’intervista.

“Se ‘Chariot’ è stata più croce o più delizia? Delizia, senza ombra di dubbio. Fu con quella canzone che iniziò la mia carriera. La mia vita cambiò. In meglio. E se oggi, a distanza di vent’anni, continuo a girare il mondo e a fare dischi, è solo grazie a ‘Chariot’”, dice Gavin DeGraw. Un salto indietro nel tempo di vent’anni. È il 2005 quando le radio europee cominciano a trasmettere “Chariot”, una canzone con un giro di piano che la rende riconoscibile sin dalle primissime note e che dopo aver spopolato negli Usa ci mette poco tempo a scalare le classifiche anche al di qua dell’Atlantico. Il brano parla di un ragazzo cresciuto in un piccolo paese che dopo essersi ritrovato a vivere in una grande metropoli prega affinché arrivi una carrozza a riportarlo a casa. A cantarlo è un giovane cantautore: si chiama Gavin DeGraw, ha 28 anni e viene da South Fallsburg, New York. È stato scovato nei locali della Grande Mela nientemeno che da Clive Davis, l’uomo dietro al successo di Whitney Houston, Santana, Patti Smith e Alicia Keys: lo ha arruolato per la sua etichetta, la J Records, ha piazzato una sua canzone (“I don’t want to be”) in una delle serie più viste in America (“One tree Hill”) e poco per vola ha iniziato a costruire “hype” intorno al suo nome, fino all’uscita di “Chariot”. Venderà milioni di copie, ma non saprà mai più ripetersi a questi livelli. A distanza di vent’anni Gavin DeGraw ha appena pubblicato una ristampa dell’album del 2004, che si intitolava proprio come la hit ed è in tour per promuoverla. Stasera sarà a Milano, sul palco dell’Alcatraz.

Perché questo esercizio di nostalgia?
“Perché lo dovevo a ‘Chariot’ e al disco intero. Queste canzoni fanno parte della mia storia: gli devo tutto. Senza di loro non sarei qui. Il ventennale era l’occasione giusta per celebrarle”.

133 milioni di streams su Spotify, 13 milioni di visualizzazioni su YouTube. Mica male per una hit uscita dieci anni prima dell’avvento dello streaming. Le canzoni di oggi riusciranno a superare la prova del tempo?
“Penso che molte delle cose che si ascoltano oggi avranno una grande longevità. Il fatto è che sono cambiati i metri di giudizio”.

Cosa intendi dire?
“Mi riferisco al modo in cui le cose vengono misurate. Nello specifico, al modo in cui si misura il successo di una canzone. I criteri sono cambiati. E poi molti casi degli ultimi anni ci insegnano che c’è anche musica che scompare per anni e poi, all’improvviso, ritorna”.

Ricordi in che fase della tua vita eri quando scrivesti “Chariot”?
“Ero un ragazzo di provincia proveniente dalla regione montuosa delle Catskills che si era trasferito a New York in cerca del successo. Ad un certo punto mi sentii sopraffatto. La vita nella metropoli mi stava facendo impazzire. Me ne tornai per un paio di giorni nella mia città natale e ritrovai di colpo l’amore per la natura e le cose semplici che avevo dimenticato. ‘Chariot’ parlava esattamente di questo”.

Nel video interpretavi un cantante in erba che credeva di aver firmato il contratto con un'importante etichetta musicale, salvo poi scoprire di essere stato truffato. Quanto c’era di vero?
“L’idea era una metafora. Ero un ragazzo umile, cresciuto in una piccola città, che fino ad allora aveva scritto canzoni nella sua cameretta e all’improvviso si era ritrovato seduto a un tavolino con uomini in giacca e camicia a parlare di business e di strategie di mercato. Penso sia scoraggiante per chiunque abbia un background come il mio”.

“Volevo creare qualcosa che fosse senza tempo piuttosto che alla moda. Ero interessato a sviluppare un suono che non fosse usa e getta. Non volevo avere troppi brillantini addosso”, spiegasti. Quanto hai dovuto lottare con i discografici per riuscire a imporre la tua visione?
“C’è sempre una negoziazione, diciamo così. Ogni volta che l’arte e gli affari entrano in contatto, chi si occupa degli affari alza la mano e dice: ‘Ok, è tutto bellissimo, ma come possiamo trarne profitto?’. Io però sono stato fortunato, perché per la maggior parte del tempo mi è stata lasciata carta bianca”.

Nella ristampa di “Chariot” ci sono anche due brani inediti, “Get Lost” e “Love is stronger (Alright)”. Che c’entrano con l’album?
“Risalgono proprio alle session di ‘Chariot’. Erano rimaste per tutti questi anni in un cassetto e ho pensato che questa fosse l’occasione giusta per tirarle finalmente fuori, dargli una seconda chance”.

“Nella cultura pop corrente la melodia è spesso assente, i testi privi di classe e senza gusto. Fastidiosi e inutilmente aggressivi, con tutto quel parlare di armi, droga e violenza, quel finto atteggiamento da duri e da smargiassi”. Lo hai detto nel 2008. Oggi la situazione ti sembra migliorata o peggiorata?
“Migliorata, per fortuna. Nei testi percepisco meno aggressività rispetto a quel momento. Forse la gente ne aveva abbastanza di quel tipo di contenuti e sono diventati obsoleti. Come tutte le cose che passano di moda. L’unica cosa che non sembra passare mai di moda è l’amore: è il solo argomento su cui si possono sempre scrivere canzoni”.

Il pop contemporaneo ti sembra superficiale?
“Non assolutizzo. C’è del pop superficiale e del pop che invece non lo è affatto. È superficiale chi nelle canzoni parla della sua voglia di diventare famoso. Io nella musica cerco la sincerità. Il vero segreto del successo sta tutto qui. Scrivendo canzoni hai la possibilità di entrare in contatto con le persone. Puoi sperare di influenzare la loro vita in qualche modo, positivamente. Facendogli capire che non solo sole”.

Chi ti piace degli artisti di nuova generazione?
“Ed Sheeran. Anche se non so quanto effettivamente possa essere considerato un artista di nuova generazioneò. È talentuosissimo. E poi Benson Boon”.

Nel 2015 collaborasti con Avicii. Il tema della salute mentale nell’industria musicale non è più un tabu anche grazie a storie come la sua. Il successo ha rischiato di travolgere anche te?
“Sì, ha inevitabilmente avuto un impatto sulla mia vita, con tutte le pressioni che ha comportato. Ma lo ha fatto nella stessa misura in cui le pressioni hanno un impatto su chi fa un lavoro diverso dal mio. La differenza è che io sono sono stato fortunato a poter fare un lavoro che amo. Mi sento un privilegiato”.

Oltre alla ristampa di “Chariot”, stai per caso lavorando a un nuovo album di inediti, a tre anni dall’ultimo “Face the River”?
“Sì. Non mi sono mai fermato: ho continuato sempre a scrivere. Il prossimo, forse, potrebbe essere l’anno giusto per far uscire il disco”.

Vuoi leggere di più su Gavin DeGraw?

rockol.it

Rockol.com s.r.l. - P.IVA: 12954150152
© 2025 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
Privacy policy

Rock Online Italia è una testata registrata presso il Tribunale di Milano: Aut. n° 33 del 22 gennaio 1996