A 14 anni leggeva articoli online su come avere successo nella musica. A 15 condivideva le sue canzoni su MySpace nella speranza di essere scoperto. A 17 veniva selezionato per suonare sul palco di BBC Introducing a Glastonbury: era il 2011 e quell’esperienza lo avrebbe portato a firmare un contratto discografico con la Mercury Records. Il suo album di debutto, dal titolo eponimo, uscito l’anno successivo, sarebbe stato candidato al Mercury Prize - tra i riconoscimenti più ambiti del music biz d’oltremanica - e avrebbe venduto quasi 1 milione di copie, diventando uno dei dischi di maggiore successo degli Anni Duemiladieci. Forse ci siamo dimenticati troppo in fretta dei traguardi raggiunti da Jake Bugg al suo esordio. L’enfant prodige più rock degli Anni Duemiladieci oggi ha 30 anni. Ha appena pubblicato il suo sesto album in studio, “A modern day distraction”. E non è più esattamente il “ragazzo più cool della Gran Bretagna”, come fu soprannominato all’epoca.
“A modern day distraction” segna il ritorno sulle scene del cantautore di Nottingham a distanza di tre anni dal precedente “Saturday night, Sunday morning”. Lì Jake Bugg aveva soddisfatto il pubblico in una veste più pop che in passato, lavorando - tra gli altri - con Steve Mac, uno degli uomini dietro al successo di Ed Sheeran: il disco esordì al terzo posto della classifica settimanale dei più venduti nel Regno Unito, ma la critica storse il naso di fronte alla svolta di Bugg. Stavolta il musicista è tornato a un’attitudine più rock’n’roll e a sonorità più grezze e spigolose: ad ascoltarlo, “A modern day distraction” suona come un antidoto al pop plasticoso di questi anni. “Ci sono stati momenti in cui mi sentivo come se stessi sbattendo la testa contro un muro di mattoni”, ha detto Bugg in una lunga intervista al Guardian, parlando delle scelte musicali, a volte incomprensibili, fatte in questi anni. Come quella volta che - era il 2016 - in “Ain’t no rhyme” provò pure a rappare: “Solo dopo l’uscita mi sono chiesto: ‘Ma perché l’ho fatto?’”.
Jake Bugg rimane il più giovane artista maschile ad aver debuttato al primo posto nella classifica degli album più venduti nel Regno Unito: aveva appena 18 anni quando, preso sotto la loro ala protettiva da Iain Archer e Mike Crossey, i produttori che avevano contribuito al successo di band come gli Snow Patrol e gli Arctic Monkeys, conquistò il traguardo con l’album d’esordio. Nelle quattordici tracce che lo componevano, da “Trouble Town” a “Seen it all”, Bugg raccontava il suo sogno di fuggire da un mondo di droga, violenza e persino omicidi, offrendo quadretti particolarmente cupi della vita della classe operaia britannica “A volte è così che può essere crescere in quei posti”, dice lui, cresciuto nei sobborghi di Nottingham. “Non so come sarebbe potuta andare la mia vita se non fossi stato travolto dalla carriera da sogno. La musica mi ha dato una vita completamente nuova, migliore di quanto avrei mai potuto immaginare e sento una specie di responsabilità nel restituire tutto. Ecco perché non mi sono mai fermato, non mi sono mai preso una pausa: mi sembra sbagliato farlo”, aggiunge.
All’epoca il New York Times lo definì una sorta di Bob Dylan di nuova generazione: “Se vi piace Bob Dylan, provate Jake Bugg”. Il mito del bardo di Duluth torna anche in “A modern day distraction”, a distanza di dodici anni dal disco del 2012. Basti ascoltare pezzi come “I wrote the book” o “All that I needed was you”. Anche i testi guardano al cantautorato di quegli anni. Il singolo “Zombieland” descrive il circolo vizioso della povertà: protagonista un uomo “che lavora 24 ore su 24 per restare a galla”. Certe sue uscite contro colleghi come i Mumford & Sons (“Contadini eleganti con i banjo”) o gli One Direction (“Devono sapere di essere terribili”) rimangono celebri. Il fatto è che Bugg ha avuto sempre riferimenti diversi dai suoi coetanei, da Donovan a Don McLean, passando per lo stesso Dylan: “Odiavo ciò che passava alla radio. Penso di essere stato ossessionato dall'essere autentico... Ero un po' critico, ma mi faceva solo sembrare più uno stupido che altro”. Oggi è meno ruvido di allora. Ha trovato una sorta di equilibrio interiore: “Sono piuttosto orgoglioso del disco e vorrei che andasse bene. Ma se non dovesse andare bene, penso che potrei ancora dire a me stesso cho ho fatto un buon album e sento di aver trovato di nuovo la strada giusta”.