Esce oggi per la collana Chinaski di Il Castello Editore "Jeff Buckley - Da Hallelujah a The last goodbye", un libro in cui dopo vent’anni di assoluto riserbo, Dave Lory - manager e amico di Buckley - rivela, anche raccogliendo molte altre voci di testimoni, com’è stato lavorare al fianco dell'artista tragicamente scomparso.
Dal libro, per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo alcuni brani dell aprima intervista in assoluto concessa da Jeff Buckley a Martin Aston per il College Music Journal e pubblicata il 12 agosto 1992.
Martin Aston: Quando la musica è entrata di prepotenza per la prima volta nella tua vita?
Jeff Buckley: Da bambino. Da una parte c’erano i seni di mia madre e dall’altra c’era la musica. La migliore compagnia, l’amica più sincera e presente, vagava con me in ogni stanza della casa. La radio sempre accesa, canticchio praticamente da una vita canzoni come “I Love You More Today Than Yesterday”. Mia madre mi accompagnava a scuola, e in macchina eravamo sempre sintonizzati su una stazione che passava musica melodica californiana, dolce e suadente: ascoltavamo Chicago, Crosby Stills & Nash, Blood Sweat & Tears, Sly & The Family Stone, James Brown, The Tempations, tutto ogni singolo giorno! Ha sposato un
meccanico che riparava automobili, stonato come una campana, che però aveva un gusto sopraffino per la buona musica, e proprio lui mi iniziò a Booker T., Led Zeppelin e Joni Mitchell, Hoyt Axton e Willie Nelson. Mia madre cantava per me, lei è una pianista e violoncellista di formazione classica. Vivevo con la mamma perché i miei genitori si sono separati addirittura prima che io nascessi. Frequentavo molto anche casa della nonna: lei metteva su dischi di The Chambers Brothers e roba così.
La musica è stata il tuo primo amore vero?
Oltre al sesso, dici? L’una abbraccia l’altro, diciamo. Ho un ricordo vivido della mia ossessione per lo stereo del mio patrigno e di essermi messo nei guai più di una volta per averlo usato. Ne era gelosissimo, manco fosse un’automobile. Possedeva un impianto davvero costoso però, quindi dovevo starci molto attento, anche a non farmi beccare, finché un giorno volevo ascoltare ad ogni costo un bootleg live di Jimi Hendrix, non ci stavo dentro, e lui si è incazzato da morire. Avevo comunque un mangianastri in camera mia, che condividevo con un altro ragazzino della famiglia. Per riuscire a farlo funzionare però dovevi infilarci una gruccia dentro.
Quando hai cominciato a cantare?
Il mio primo pubblico fu una riunione di parenti. Il mio patrigno si era ubriacato crollando addormentato sul pavimento davanti a tutti, con mia nonna troppo imbarazzata, quindi, per distogliere l’attenzione da quello che era appena successo, mi sono messo a cantare tutte le canzoni di Elton John che conoscevo. Ai tempi ero un suo grande fan. Mi sono pure guadagnato una bella manciata di dollari d’argento con la mia esibizione estemporanea. Avevo tredici anni (ride). Io e il mio migliore amico abbiamo iniziato a suonare la chitarra elettrica, sai, abbiamo preparato “Stairway To Heaven”, per un talent show alle scuole medie. Abbiamo perso, purtroppo... Allora vivevamo nella California del Sud.
Più tardi ho avuto un gruppo nel Nord della California, a Willits, ci chiamavamo Axxis. Non fu una mia idea. Quella è una delle diciannove città in cui ho vissuto. Ho frequentato quattro scuole superiori diverse. Una l’ho frequentata solo per un paio di settimane. Mia madre era una vera zingara
Cantare su un palco ti è venuto facile?
Del tutto naturale. L’ho fatto e basta. Come andare in spiaggia, o immergermi nell’oceano, ah l’acqua! Non ci avevo mai pensato, in effetti. Ho cantato la prima volta per i ragazzi delle scuole superiori a un ballo in una Chiesa Metodista a Nord della California. A tredici anni già avevo le idee chiare su cosa avrei voluto fare. I miei preferiti in assoluto erano i Led Zeppelin, e sentivo che quello era il mio mondo. Passavo ore e ore ad ascoltare "Magical Mystery Tour".
Me ne sono andato di casa a diciassette anni, perché ero stanco dei continui traslochi. Ho suonato in moltissime band di Los Angeles, giusto per racimolare qualche spicciolo. Per un po’ ho fatto parte di un gruppo reggae, la AKB Band, un collettivo eterogeneo di pazzi scatenati, c’era anche un Rasta. Io suonavo la chitarra. Siamo arrivati fino a far da spalla a U-Roy, Shinehead e Judy Mowatt e abbiamo suonato al Bob Marley Day a Long Beach. Facevamo anche session in studio per demo
di serie Z.
In che fase ti senti ora?
Fisso ai blocchi di partenza. Mi piacerebbe realizzare un disco. La sera in cui sei venuto a vedermi, sono venute a sentirmi varie etichette discografiche. Clive Davis dell’Arista voleva firmarmi sulla fiducia anche senza avermi visto, in base a una segnalazione del capo della sua divisione A&R, ma per convincersi ha voluto verificare comunque di persona. Ho intenzione di partire col piede giusto. Voglio trovare la gente giusta con cui suonare. Sì, una band, proprio per ottenere l’atmosfera di cui ho bisogno. Una botta d’energia.
Posso permettermi di sollevare la delicata questione di tuo padre Tim?
Capita a chi lo conosceva di venire a vedermi, con curiosità, per passare una bella serata fuori, ma appunto vedono me e non pensano più a lui. Parlo di quelli che non lo hanno approfondito. Da quelli più addentro e affezionati, mi tengo invece a debita distanza. Siamo diversi, io e lui. Le persone che lo conoscevano, a quanto pare, hanno grande memoria della magia di cui era capace, ma purtroppo questo legame claustrofobico mi ha perseguitato per tutta la vita. Alla fine abbiamo vissuto insieme solo per nove giorni, nove di numero. Non mi ha mai scritto, né tantomeno si è fatto sentire.
Ascolti i suoi dischi?
Sì, soprattutto per conoscere la persona che ci sta dietro. È tutto lì, chi vuol capire la capisce, più o meno. Ha scritto un paio di canzoni su di me e mia madre che a volte trovo difficile ascoltare, altre volte meno. Il suo stile non aveva nulla a che spartire con il mio. La cosa divertente è che fisicamente ci assomigliamo molto, ma quando canto io, beh, sono io e basta. Tecnicamente sono in grado di riprodurre quello che faceva lui, ma il modo che abbiamo di esprimerci non è lo stesso; la
sfera è del tutto diversa. I suoi erano altri tempi, influenzati da Dylan e dal folk. Non ho la sua voce nemmeno quando parlo. Posso però farne un’imitazione credibile, aggrottando le sopracciglia, e quando lo faccio la gente si mette a ridere.