Opus Avantra, inclassificabili da cinquant'anni

Tutta la loro produzione in un bellissimo cofanetto di vinili, CD, foto, booklet e altro

C’è modo e modo di essere inclassificabili: uno è mischiare i generi, prendendo gli stereotipi di ognuno fino ad ottenere una zuppa insapore, l’altro è creare un mosaico che indaga, scompone e ricompone ogni stile, arrivando a rinnovarlo. L’inclassificabilità degli Opus Avantra è del secondo tipo, sin da “Introspezione”, uscito cinquant’anni fa. Se non li avete mai ascoltati, ora è disponibile l’opera omnia nel cofanetto ad edizione limitata “OA48”, presentato ieri alla Discoteca di Stato di Roma. Si tratta di cinque vinili (per Artis Records, Ed. Cramps), accompagnati ognuno dal proprio cd rimasterizzato, dvd del live in Tokyo del 2008 (in Giappone l’ensemble ha tuttora un seguito), foto e molto altro, incluso un booklet di 44 pagine con la storia del gruppo. 

Storia davvero singolare. Erano gli “strani” anche fra le novità degli anni '70, quando la diversità artistica costituiva un valore. Nati in Veneto nel 1973, dall’incontro fra il compositore Alfredo Tisocco, la cantante soprano e autrice Donella Del Monaco (nipote del celebre tenore Mario), il filosofo Giorgio Bisotto e il giornalista-produttore Renato Marengo, e via via accogliendo un centinaio di musicisti di varia estrazione, dichiararono il loro intento già nel nome: Opus, che sta per opera, Avan (guardia) e Tra (dizione). 

Si mossero fra sperimentazione e recupero del passato, spiazzando l’ascoltatore che s’imbatteva in un amalgama di musica elettronica, rock, pop, canti di tradizione popolare, melodramma, opera (un tempo anch’essa popolare: i nostri nonni la fischiettavano nei campi), jazz, musica barocca, musica concreta, con il suo rispetto per il rumore, cambi, scambi, picchiettii. 

«Ricordo il primo concerto al Teatro delle Arti a Roma, nel 1974» racconta Alfredo Tisocco «Il pubblico pensava che stessimo provando, e non suonando! Provenivo dal Conservatorio ma ero fatalmente attratto dalla ricerca e dall’innovazione. Giorgio Gaslini mi insegnava a improvvisare, e con il progetto Opus Avantra potevo spingermi oltre. Eravamo politonali, poliritmici, avventurosi. Inserire l’elettronica nel pop, all’epoca, sembrava uno sgarbo, poi passavamo a un brano melodioso, a un’introduzione alla Vivaldi. Insomma, nutrivamo grande entusiasmo per le cose inconsuete. Eravamo meno propensi alla politica, più all’estetica, e all’etica».

All’esordio discografico allegarono un manifesto, immaginando un movimento culturale (sul modello del Gruppo 63), in cui si parlava di “atomizzazione dell’individuo” e “bisogno di salvare il rapporto fondamentale fra arte e popolo”. Espressioni di quando alla musica si riconosceva una missione ben più alta dell’intrattenimento.  
«Avevamo idee rivoluzionarie ed eravamo idealisti» spiega Donella Del Monaco «Io venivo dalla musica operistica, ma insieme agli altri volevamo collegarla alla musica contemporanea, e crearne una inclusiva, senza steccati. Era il periodo di Luigi Nono, di Stockausen, di John Cage all’etichetta Cramps. Riuscimmo a formare un gruppo stabile ma aperto, un laboratorio».  
Facevano progressive? Non esattamente. Quel termine venne coniato diversi anni dopo. Erano nell’orbita di gruppi come Area e Pierrot Lunaire, allungavano lo spazio espressivo in suite invece che stiparsi in canzoni da tre minuti, eppure costituivano un progetto a sé. Controculturali? In parte. Nel senso di distanti dalla cultura dominante, ma non rottamatori della tradizione, che anzi rispettavano e reinterpretavano. In comune con il prog, avevano la convinzione che la musica potesse incidere sulla società, persino cambiarla. 

«Contaminazione era la parola-chiave, e i nostri incroci sembrarono un film» ricorda Marengo «Giorgio Bisotto era rientrato dalla Legione Straniera e dovette fare il soldato a Napoli. Me lo ritrovai compagno di branda. Avevamo in comune la passione per la musica e mi presentò Donella. Il nome del gruppo nacque durante un viaggio. Discutevamo su dove dovesse andare la musica. Doveva guardare indietro? Avanti? Tutte e due le direzioni. Io avevo appena prodotto “Rosso Napoletano” di Tony Esposito e gli feci conoscere il gruppo. Si mischiò subito». 

Tony Esposito conferma l’amore a prima nota: «Esisteva un legame forte fra Venezia e Napoli, due città affacciate sul golfo che si contaminavano di culture. In quegli anni '70 Napoli era una città porosa, assorbiva tutto e tutto sembrava girare insieme. Io ero tornato dal mio primo viaggio in Africa e volevo riscattare le percussioni, qui considerate gregarie. Riuscii a farlo con Opus Avantra, a partire dal brano “Rituale”. Mi innamorai della loro pazzia. Perché non erano solo folli e spavaldi, erano competenti. Oggi, da musicista, vedo intorno un certo stallo e omologazione, mentre questo progetto spalanca ancora le finestre della musica. È più necessario che mai».  

Alan Bedin, nuovo componente agli strumenti indiani, ha curato l’intera box collection “OA48”, convinto che il formato fisico sia l’unico modo per fissare un’esperienza simile e restituirla a chi ascolta: «Questa non è musica liquida, è incisa sul solco, permanente». È diventata “bene sonoro”, tra gli oltre trecentomila conservati nei depositi della Discoteca di Stato.

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