Mace e "Maya": “Un album per scardinare l’urban”
“Maya”, titolo del nuovo album di Mace, in uscita venerdì 5 aprile dopo il successo di “Obe” del 2021 e dopo il disco strumentale “Oltre” del 2022, è traducibile con la parola “inganno”. È un termine che nasce dalla filosofia induista per esprimere la grande illusione che avvolge ciò che definiamo comunemente come “reale”. È in questa dimensione che il produttore, radunando 28 artisti, compiendo un viaggio tra generazioni e stili, facendo dialogare psichedelia, rock e soul anni ’70, pop, rap ed elettronica, crea una porta per condurre l’ascoltatore da un’altra parte e sfuggire alle definizioni. “Maya”, come ha spiegato lo stesso Mace, vuole scardinare le convinzioni, andando controcorrente rispetto ai tanti e spesso banali producer album, puntando in modo ambizioso e splendente su una musica di “comunità”, suonata e contaminata, che vuole rimettere al centro il vero.
Sin dal primo ascolto si percepisce come l’album sia molto vivo, suonato, frutto di interazioni reali.
È un disco pensato per i live. Ho fatto il dj per una vita, ma con la dimensione live, per davvero, mi sono confrontato con “Obe”. Ed è stato qualche cosa di nuovo. Già avevo riarrangiato molto “Obe” per proporlo da vivo. Con questo nuovo album volevo andare sempre di più verso questa direzione. Perché, alla fine, è quello che piace a me: quando vado a un concerto amo vedere una band suonare, sentire gli arrangiamenti. Io volevo un disco con una grande cura del suono, ma replicabile dal vivo.
Come hai lavorato per realizzarlo?
Abbiamo fatto venti giorni in Toscana, in una residenza. Il nocciolo del disco è nato lì. Ho portato con me i migliori musicisti che conosco (circa una quindicina, ndr) e alcuni artisti più vicini a me: Izi, Gemitaiz, Joan Thiele, Venerus, e poi sono passati anche Frah Quintale e Marco Castello nelle prime sessioni. Siamo partiti da zero, volevo che la musica nascesse naturalmente dall’interazione tra tutti noi. Proprio come se fossimo un collettivo. Chiaramente io ero il “regista”, ma tutto è arrivato spontaneamente.
Un approccio “alla vecchia”.
Io praticamente ascolto solo musica anni ’70. Di contemporaneo ascolto l’elettronica, “la musica viaggiosa”, va bene, ma il mio vero grande amore è negli anni ’60 e ’70. I Funkadelic, in questo senso, sono stati illuminanti. Ascoltando un loro album si percepiscono affiatamento, vita vissuta insieme, interazione, tour. Io volevo riprodurre quel tipo di legame e sensazione. E così ci siamo chiusi tutti insieme in uno studio immerso nella natura.
Vi davate dei tempi?
No, lo studio era aperto e in registrazione h24. Se qualcuno aveva un’idea alle 3 del mattino e voleva andare a registrare, poteva. Tante idee sono proprio nate così, con alcuni musicisti che dormivano e altri svegli, e viceversa. È stato un misto tra una comune fricchettona e un collettivo artistico e musicale. È stata un’esperienza totalizzante.
Possiamo definirla come una scelta in controtendenza all’oggi?
Sì, oggi la musica che ascoltiamo è costruita in larga parte da sessioni in studio tra un produttore, un artista, un topliner, un autore etc. Anche io ho lavorato così e continuerò a farlo, non c’è nulla di male, ma l’unione tra sensibilità ha un altro sapore. E nella musica urban, secondo me, questo concetto spesso non c’è.
Non basta, però, il metodo.
Sono d’accordo, quello che conta è il risultato. Faccio musica da vent’anni, so bene che cosa significhi realizzare una canzone in diversi momenti oppure scriverla insieme ad altri, vivendo attimi di collettività. L’assolo di chitarra di “Meteore” è arrivato fuori magicamente dal nulla. È nato dalla pancia, mentre tutti eravamo al lavoro. E questa verità, nell’ascolto finale del disco, si percepisce. Pensa che ogni canzone, in realtà, all’inizio, durava circa venti minuti con tante alternative. Erano delle vere jam da cui poi ho selezionato solo il meglio. Sarebbe bello, un giorno, pubblicare queste versioni lunghe (sorride, ndr).
Di “Obe” pubblicasti le parti strumentali…
Quello fu un processo semplice: tolsi le voci e stop. I grezzi di “Maya”, invece, sono dei veri viaggioni. Sarebbe una versione “espansa”.
In Toscana hai portato con te una sorta di cerchio magico di artisti e musicisti. Ma poi gli altri come sono arrivati? Come li hai scelti?
Con l’istinto. Sono tutti artisti che ho scelto perché mi hanno colpito, ma che allo stesso tempo volevo decontestualizzare, portandoli nel mio mondo.
Ci sono big, ma anche diversi emergenti che tu tratti alla pari di un nome già affermato. C’è dell’etica in questa scelta?
Alcuni dei momenti più belli li ho vissuti proprio con loro. Hanno un entusiasmo contagioso. E poi ti dirò: io inizio ad avere quarant’anni, confrontarmi con un ragazzo di venti mi fa bene. Anche Centomilacarie ascolta come me i Led Zeppelin, ma lo fa a suo modo. Il confronto generazionale offre linfa vitale. E sì, c’è anche un aspetto etico: emergere in Italia è un casino. Ma attenzione, la mia non è filantropia: i ragazzi che ho scelto si meritano di essere in questo disco con i big.
Ne parli come se alcuni fossero più interessanti di alcuni big…
Eh, sì. Alcuni fanno musica più interessante di chi è affermato, eccome. Chi è lassù se lo merita, sia chiaro, ma è evidente che, trovato un proprio stile riconoscibile, difficilmente con il passare del tempo un big farà qualche cosa di veramente sorprendente. Sono pochi quelli che riescono ancora a stupirmi. Un emergente, invece, essendo in “costruzione”, può generare maggiore curiosità.
Prima hai citato il genere urban. Credi che “Maya” abbia questo tipo di etichetta?
No. La parola “urban” non la sopporto. Io poi ho realizzato il disco in campagna, non è molto urban…(ride, ndr). Nel progetto ci sono tanti rapper, è vero, ma quello che mi ha animato era proprio il voler scardinare l’idea di urban come è concepito oggi. Vengo anche dal rap, ho una cura e una lavorazione del suono che ha a che fare con quel mondo, ma allo stesso tempo in “Maya” ci sono un mare di influenze diverse che volutamente vogliono allontanarsi da certe definizioni.
Dopo “Obe” hai avuto la tentazione di ripeterti?
Ho disinnescato quel processo pubblicando un disco puramente strumentale, “Oltre”, proprio perché avevo paura di cadere in quella trappola. Ma ero tranquillo, consapevole. Se avessi fatto un “Obe 2” sarei diventato esattamente quello che odio, ovvero un artista prevedibile.
Oltre a “Meteore”, un altro pezzo importante è “Strano” con Cosmo e Rares. Con Cosmo avete molte affinità. Avete mai pensato di realizzare qualche cosa insieme, di più ampio?
Credo che Cosmo sia uno degli artisti più importanti che abbiamo in Italia, è illuminante, sia per la musica che fa, sia per quello che dice fuori dalle canzoni. Non lo conoscevo, sono andato a Ivrea apposta dopo averlo chiamato per dirgli: “più persone mi dicono che dovremmo conoscerci”. E pensa che più di una volta è capitato di incontrarci sottocassa a ballare, in un festival, in un club o in un live. Ed è tutt’altro che un caso.
Evidentemente ti sei formato con tanta musica internazionale. C’è stato spazio anche per quella italiana?
Il gusto per la melodia c’è, fa parte di me, di noi. È inevitabile se ti confronti, come nel mio caso, con cantanti italiani. A livello storico ho sempre apprezzato Battisti, Battiato e Morricone, e poco altro. Con il tempo, però, ho imparato ad amare di più anche alcune soluzioni melodiche tipiche del nostro Paese.
La tua musica è pensata per arrivare a tutti?
Io voglio fare musica che arrivi, sì, non mi interessa fare musica d’avanguardia, ma allo stesso tempo prendo alcuni elementi di quell’universo più complesso, che mi attrae, e li inserisco in contesti più fruibili.
“Fuoco di paglia” con Gemitaiz, Frah Quintale e Marco Mengoni come è stata lavorata?
È un pezzo che ha un richiamo soul anni ’60-‘70, tra il malinconico e lo spensierato: appena ho iniziato a lavorarlo ho subito pensato alla voce di Mengoni, che per me è una delle più belle della storia della musica italiana. Con lui avevo già collaborato. Il ritornello lo ha scritto Calcutta. Oltre a Mengoni, però, avevo bisogno di altre due voci: una più ritmica e un'altra che facesse da contrasto, per questo ho chiamato rispettivamente Frah e Gem.
Il tuo live del 18 ottobre al Forum di Milano come te lo immagini?
Come un viaggione che attraverserà vari mondi e generi, da quello più elettronico a quello strumentale. Ci saranno tanti ospiti. Sarà il racconto del meglio dei miei tre dischi.