"Lateral" - At The Movies: Le Canzoni al Cinema

Prima parte di un viaggio in tre puntate tra le canzoni e i film più belli della storia.

Lateral è un appuntamento periodico di Rockol per attraversare la storia della musica popolare, alta e bassa, e offrirne una vista, appunto, laterale.

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Alcune delle più grandi scene della storia del cinema sono memorabili proprio perché accompagnate dalla canzone perfetta. Una relazione simbiotica tra adattamenti di musical, canzoni originali, pezzi editi famosi o da riscoprire che nasce negli anni Sessanta, matura nei Settanta e negli Ottanta, per poi esplodere definitivamente negli anni Novanta con l’approccio compilativo di Tarantino e Scorsese prima, e di Wes Anderson e Sofia Coppola poi. Da “Il Laureato” a “Quei Bravi Ragazzi”, da “Saturday Night Fever” a Trainspotting”, da “Pulp Fiction” a “Caro Diario”, tra trailerisation ed effetto jukebox, un viaggio in tre puntate tra le canzoni e i film più belli della storia, insieme.

Prima Parte

Interno giorno.

Un giovane di 21 anni attraversa l’aeroporto di Los Angeles, di ritorno da New York dove ha finito il college. Mentre si lascia trasportare dal tapis roulant, scorrono i titoli di testa, accompagnati dalle note di una canzone di Simon & Garfunkel. L’anno è il 1967, Il film è “The Graduate”, il ragazzo ha il volto di Dustin Hoffman, la canzone è “The Sound Of Silence”, nella versione elettrificata inventata dal produttore Tom Wilson all’insaputa del duo e arrivata al numero uno delle classifiche americane un anno prima. È una delle tre volte in cui il brano è utilizzato nel film, ad accompagnare il senso di isolamento e l’alienazione del protagonista e incanalare l’ansia generazionale del coming of age del ventunenne Benjamin Braddock. Incerto sul suo futuro, Ben intraprende una relazione vuota con una donna molto più grande di lui, salvo poi innamorarsi della figlia.

Non è solo l’inizio della Nuova Hollywood e la rinascita del cinema americano, ma anche una piccola rivoluzione: per la prima volta, o quasi, canzoni pop precedentemente pubblicate, di grande successo, suonate nelle radio e nelle case vengono utilizzate per una colonna sonora. Il regista, Mike Nichols, fan di Paul Simon e Art Garfunkel, contatta la coppia per chiedere un loro contributo al film. All’inizio viene accolto con disinteresse, poi i due accettano e promettono tre brani nuovi e altri già pubblicati. Il film si avvicina al completamento e Paul Simon ha scritto solo una nuova canzone che viene scartata dal regista. C’è però il frammento di una melodia che Simon ha scritto su Eleanor Roosevelt. E così l'ex First Lady "Mrs. Roosevelt" diventa l’adultera alcolista "Mrs. Robinson" e il film guadagna il suo tema musicale chiave, anche se in una versione incompleta con parte delle liriche mancanti.

La colonna sonora esce sul mercato il 21 gennaio 1968 e sale rapidamente al numero 1 nelle classifiche americane, dove si afferma come qualcosa di realmente nuovo e diverso. Non è la colonna sonora di un musical cinematografico come "West Side Story", nè accompagna un film dei Beatles o di Elvis Presley. Le canzoni diventano lo strumento per sottolineare e commentare le emozioni della narrazione: il film è definito dalle canzoni che lo accompagnano. Con Nichols, la colonna sonora diventa qualcosa da ascoltare, una scelta che influenzerà i film per decenni a venire. Venderà oltre due milioni di copie e vincerà un Grammy. Simon & Garfunkel tornano successivamente in studio per registrare la versione “finale” di “Mrs. Robinson”, che arriva come singolo in testa alle classifiche americane alcuni mesi dopo.

Il Laureato esce nel 1967, ma la relazione tra musica e immagini nasce ben prima. Già i film muti sono accompagnati da un pianoforte o un organetto in sala. Proprio come nel teatro dell'antica Grecia e del Rinascimento inglese, i musicisti improvvisano in base alle immagini, o eseguono musica classica che si adatta all'umore del film. Quando non c’è il musicista dal vivo, la sala cinematografica usa un fonografo per attutire la spettralità delle immagini sullo schermo, nascondere il rumore dei primi proiettori cinematografici, o semplicemente per accompagnare il movimento con il suono e dare un senso di ritmo. Con l'avvento del sonoro, la musica si afferma ancora una volta come elemento vitale nell'industria cinematografica - soprattutto con l’utilizzo di selezioni ad opera di compositori classici occidentali - andando a completare quello spazio vuoto che i gesti degli attori e le didascalie non riescono pienamente a riempire. Negli anni '30 e '40, la musica da film inizia ad evolversi, con colonne sonore orchestrali composte come complemento emozionale delle immagini. A partire dagli anni ’50,  compositori jazz/pop sinfonici come Henry Mancini, Elmer Bernstein, Ennio Morricone e persino Miles Davis iniziano a scrivere per il cinema, portando la musica cinematografica di Hollywood in una direzione diversa.

Anche se cinema e canzone pop sono definite arti “popolari”, entrambe orientate al pubblico di massa, il loro incontro avviene solo con il rock’n’roll.

Nel 1955 esce “Blackboard Jungle”, che può essere considerato il mito fondatore del cinema pop per l’impatto della canzone “Rock Around The Clock” di Bill Haley And His Comets. È il primo film hollywoodiano con una canzone rock che trova il successo mancato alla sua pubblicazione l’anno prima, raggiungendo la prima posizione nella Billboard Charts, dove rimane per otto settimane. Il potere dell’unione tra canzone e immagini viene immediatamente compreso dal Hollywood come dimostrano gli oltre venti film del “Presley Atto Secondo” a inizio Sessanta. Più o meno contemporaneamente, i Beatles sono le prime star che interpretano sé stesse a suonare le proprie canzoni in “A Hard Days Night”.

È solo però con la fine degli anni Sessanta che inizia una vera fusione dell'industria musicale mainstream con il cinema, grazie a film che creano un'intera colonna sonora utilizzando canzoni già pubblicate o nuove di artisti di chiara provenienza dalla cultura rock e pop. A “The Graduate” succede due anni dopo “Easy Rider”, dove “Born To Be Wild” degli Steppenwolf - anche in questo caso originariamente pubblicata l’anno prima - sintetizza la cultura on the road con efficacia insuperabile, facendo risplendere il serbatoio del chopper “Captain America” di Peter Fonda. Nello stesso anno esce “Midnight Cowboy” – la prima pellicola X-rated a vincere l'Oscar per il miglior film – che prende materiale originale e canzoni preesistenti per raccontare le storia di un ingenuo cowboy/sex worker che cerca di sopravvivere in una grande città. Per confermare il trend, è una canzone pubblicata già due volte in versioni diverse a rendere la giustapposizione tra il personaggio di Jon Voight e il truffatore “Ratso” (ancora Dustin Hoffman). "Everybody's Talkin'" di Freid Neil vince il Grammy Award per la migliore performance vocale contemporanea maschile, nell’interpretazione di Harry Nilsson.

A partire dagli anni Settanta, le canzoni vengono inserite sempre più spesso all’interno dei film e se questo meccanismo diventa una chiara strategia commerciale, qualcuno comincia a utilizzare la canzone in maniera diversa. Nel 1973 esce il primo film ad avere un grande successo celebrando la nostalgia, anche attraverso la musica. George Lucas non è ancora uno dei personaggi più importanti della storia del cinema e prima di guardare al futuro con “Star Wars”, si volta indietro in una retromania ante litteram. “American Graffiti” si svolge in una lunghissima notte alla fine dell'estate del 1962, l’anno che in qualche modo segna la fine spirituale degli anni Cinquanta, prima della crisi dei missili cubani, l'assassinio di JFK, la guerra del Vietnam, il movimento controculturale. Con qualche riferimento autobiografico, il film racconta alcuni ragazzi che hanno finito le scuole superiori e navigano le strade di Modesto, in California, con la radio accesa, pensando al futuro. I successi che ascoltano, di Buddy Holly, Platters, Frankie Lymon & the Teenagers e Del Shannon, sono presentati da Wolfman Jack, il leggendario disc jockey che trasmette il programma radiofonico a cui sono tutti incollati. Le canzoni risalgono per lo più alla metà degli anni '50 e per i personaggi del film, ambientato alcuni anni dopo, portano già il dolore del tempo passato. Il film esce nelle sale quando si sta celebrando la fine definitiva dei Sessanta - e, in un certo senso, del sogno americano - e amplifica l’effetto nostalgia per la generazione di Lucas, i baby boomer vicini ai 30 anni. Subito dopo, viene pubblicato l’album contenente tutte le canzoni che ha un enorme successo e diventa triplo platino. Nasce la colonna sonora compilativa, riscoperta e in qualche modo reinventata negli anni Novanta, con Scorsese, Tarantino, Wes Anderson e Sofia Coppola.

Hollywood comprende che si possono definire strategie “film + musica” capaci di saturare il mercato e le applica con un film che esce nelle sale americane nel dicembre 1977, ispirato dalla storia di copertina nel giugno 1976 della rivista New York ("Tribal Rites of the New Saturday Night" di Nik Cohn) con una colonna sonora fatta di canzoni vecchie e nuove di un genere che ha preso piede tra il popolo afroamericano e altre minoranze che vivono tra New York e Philadelphia. La storia si concentra su un personaggio, Vincent, le cui mosse in pista lo hanno reso il re della discoteca 2001 Odyssey, a Brooklyn. Il film si sta già girando e John Travolta sta ballando su canzoni di Stevie Wonder e Boz Scaggs, quando il produttore Robert Stigwood - anche per i costi eccessivi di alcune canzoni di repertorio che vorrebbe utilizzare - chiede ai Bee Gees un contributo alla colonna sonora. Il gruppo è allo Château d'Hérouville, uno studio di registrazione fuori Parigi – l’Honky Château di Elton John - dove sta lavorando a un nuovo disco che nulla ha a che fare con la trama del film. Si accordano per quattro canzoni che hanno già registrato in versione demo. Ci lavorano per quattro settimane, durante le quali sperimentano anche il primo drum loop con un taglia e cuci caratteristico dei tempi analogici. In aereo, Robin Gibb scrive sul biglietto di viaggio il testo di una canzone che viene utilizzata, anche questa volta, per i titoli di testa.Saturday Night Fever” esce nei cinema americani una settimana prima del Natale 1977. È un film a basso budget, tanto che la spesa più importante oltre al compenso degli attori è la pista da ballo multicolore da 15.000 dollari. Non è un musical, ma le canzoni sono protagoniste e si ballano. I quattro inediti regalati dai Bee Gees si chiamano “Stayin’ Alive”, “Night Fever”, “How Deep Is Your Love” e “More Than A Woman”. La colonna sonora esce nei negozi prima del film e nel giro di poche settimane rimpiazza “Rumors” dei Fleetwood Mac in cima alle classifiche americane, dove è arroccato da un anno e mezzo. Diventa uno degli album più venduti della storia, con 40 milioni di copie. Per oltre sei mesi, dal dicembre 1977 al giugno 1978, i Bee Gees regnano come nessuno mai prima e dopo di loro sulle classifiche americane e di tutto il mondo.

Squadra che vince non si cambia. Stesso produttore e stesso attore protagonista lavorano a un altro film con la musica protagonista quando “Saturday Night Fever” non è ancora uscito nelle sale. In quel momento, John Travolta è ancora sostanzialmente sconosciuto e nessuno può immaginare che il film che si muove dalle parti di “American Graffiti”, anche se è tratto da un musical di qualche anno prima, diventerà un successo senza fine, praticamente un long seller se si trattasse di un libro. La sequenza dei titoli di testa è inizialmente accompagnata da una canzone scritta da un non indimenticabile Bradford Craig, quando durante la post-produzione del film, la colonna sonora di “Saturday Night Fever” diventa un enorme successo. Robert Stigwood, che non ha nemmeno sentito il demo di Craig, chiama Barry Gibb e gli chiede di scrivere una canzone per il film. Barry chiede quale sia il titolo e alla risposta “Grease” se ne esce con: "Grease? What a word!" L’esclamazione diventa la tagline del film, “Grease is the word”, e per cantarla viene scelta un’icona del passato che completa l’effetto nostaglia dell’operazione: Frankie Valli. Non è il primo musical a subire un trattamento pop-rock nel passaggio alle sale cinematografiche. “Jesus Christ Superstar”, in chiave ancora operistica e con un grande successo, e “The Rocky Horror Picture Show”, senza alcun riscontro da parte del pubblico, avevano aperto la strada. “Grease” è però qualcosa di immensamente più grande e probabilmente senza rivali - né prima né dopo - per impatto culturale. La colonna sonora, anche in questo caso doppia, diventa l’album più venduto del 1978. In due anni, due colonne sonore fatte di canzoni sono i due album più venduti al mondo.

Sembra sia tornato il momento dei musical prestati al cinema e ne approfitta Miles Forman per portare nelle sale il simbolo della controcultura hippy della seconda metà dei Sessanta. Gli incassi diranno che non è ancora l’anno dell’Acquario.

C’è poi tutto un sottogenere rappresentato dalle canzoni pop e rock nei film che trattano di guerre e dintorni. Nel 1979 esce una pellicola che parla del conflitto in Vietnam, ma girarlo è stato il Vietnam vero e proprio, tra condizioni difficilissime nelle Filippine dove vengono scelte le location, infarti, tifoni, sforamenti di budget, sceneggiatura in divenire, 14 mesi di riprese, due anni per il montaggio. Distrutto dalla critica americana al momento dell’uscita, “Apocalypse Now” vince a Cannes dove viene presentato ancora nella versione work in progress. Quando il film inizia, ci porta istantaneamente in una dimensione minacciosa, con la musica di un gruppo baluardo della rivoluzione controculturale contro la guerra del Vietnam. Il regista pensa in un primo momento a “Light My Fire”, ma cambia quasi subito idea. Cosa c’è di meglio di iniziare un film con una canzone che parla della fine? Gli elicotteri scivolano attraverso l'inquadratura, una foresta è devastata da un bombardamento al napalm e il volto sonnolento di Martin Sheen, catturato da qualche parte tra sogno e realtà, galleggia su tutto. Il lamento apocalittico di Morrison e della band evoca gli orrori di una guerra in modo vivido. I Doors e la loro “The End” hanno il potere di collassare il tempo e ricollocarci in pochi secondi nella Summer Of Love del 1967 e nel suo fervore proto-rivoluzionario.

Queste accelerazioni spazio-temporali capaci di prendere lo spettatore in sala e scaraventarlo da un’altra parte diventano uno degli usi più efficaci delle canzoni al cinema. Lawrence Kasdan aggiorna in chiave autoriale l’effetto nostalgia di “American Graffiti” quando decide di aprire il suo “The Big Chill” nel 1982 con “I Heard It Through The Grapevine” e a seguire “You Can’t Always Get What You Want”. Evocando le delusioni dell'era boomer, il testo di Mick Jagger dà forma e sostanza alla prima scena del film, un corteo funebre per un suicidio. È quasi inevitabile che man mano che conosciamo gli amici che si sono ritrovati, speriamo che ottengano ciò di cui hanno bisogno. Il film porta a un nuovo livello il dolore per il passato, accompagnando con una colonna sonora Made in Motown, momenti più o meno felici della rimpatriata e sottointendendo che i tempi migliori sono finiti, per sempre.

Solo due anni prima, la musica di matrice afroamericana, ma di matrice Atlantic, è stata l’elemento portante di un nuovo tipo di film musical. Scritto da un bianco, girato da un altro bianco e con due bianchi protagonisti, “The Blues Brothers” nasce per celebrare la musica r&b e soul che era stata sostanzialmente dimenticata. Aretha Franklin, Ray Charles, Cab Calloway e altri riprendono pezzi che li avevano resi famosi in una pellicola che, insieme a “The Big Chill”, rimane un’eccezione nel cinema anni ’80, dove le canzoni dal 1982 in poi sono sostanzialmente sempre originali.

Gli Ottanta sono infatti gli anni di Mtv che rivoluziona la musica pop e in qualche modo trasforma anche la relazione tra canzoni e cinema. Registi di cinema girano clip, registi di video musicali o di pubblicità passano al grande schermo: le contaminazioni diventano sempre più evidenti con videoclip tagliati direttamente dal film e scene di film che sembrano spot. Contemporaneamente, la sinergia tra industria cinematografica e discografica passa a un livello superiore. Si costruiscono film dove le canzoni sono centrali e gli artisti che le intepretano fanno parte della stessa casa discografica, in modo che sia più semplice pubblicare non solo i singoli, ma anche un album che li racchiuda tutti. “Flashdance”, “Footloose” e “Dirty Dancing” sono una versione più studiata e indiustriale di una ricetta che si pone a metà tra “Saturday Nigth Fever” e “Grease”. Ci sono storie di giovani donne e uomini alla ricerca di un riscatto o di un desiderio di emancipazione, un uso diegetico della musica (le canzoni fanno parte della scena, gli attori le ascoltano con noi) e si balla un sacco. “Flashdance” è il fim che per primo ridefinisce la cinematrografia tra ombre, illuminazioni stilizzate e un editing da spot pubblicitario, mentre crea una versione Eighties del musical cinematografico. Per ogni canzone c'è una scena presentata allo stesso modo di un video musicale, come l'uso di "Maniac" mentre Alex (Jennifer Beals) si allena per la sua audizione di danza, o la canzone principale del film, "What a Feeling", che suona durante il montaggio di apertura dell'acciaieria. Quando il film esce gli incassi del primo week end sono modesti: non c’è una star, il regista non lo conosce nessuno. Quando l’album vende 700.000 copie nel giro di due settimane e le canzoni entrano nell’airplay di MTV, la gente invade i cinema e fa di “Flashdance” uno dei successi dell’anno, mentre la canzone si aggiudica l’Oscar.

Da lì, il diluvio. In tutti gli Ottanta praticamente non ci sarà un film di grande successo senza una o più canzoni che lo identifichino immediatamente e che abbiano altrettanto riscontro sul mercato. Le canzoni sono pressoché sempre inedite, scritte apposta per il film: “Ghostbusters” con il brano omonimo, “Rocky III” e “Eye Of The Tiger”, “Ritorno al Futuro” e “The Power Of Love”, “Top Gun” e “Take My Breath Away”, “Breakfast Club” e “Don’t You (Forget About Me)” e tanti altri. Di colpo è come se non ci fosse più spazio per la memoria del rock: si cercano sempre brani nuovi, con sonorità e produzioni in linea con i tempi. Da questo uragano mainstream, spunta una canzone diversa, destinata a rimanere nella memoria di molti e frutto della collaborazione tra Ryuichi Sakamoto e David Sylvian per il film “Merry Christmas Mr. Lawrence”, interpretato, tra gli altri, anche da David Bowie. E’ “Forbidden Colours”.

Appuntamento a presto per la seconda parte del racconto su “At The Movies: Le Canzoni al Cinema”. Nel frattempo, qui la playlist che accompagna il viaggio.

 

 

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