Con l’arrivo di “Priscilla” di Sofia Coppola nelle sale italiane, il pubblico torna a sentirsi raccontare il re del rock dal cinema contemporaneo. Dopo l’imponente film del 2022 dedicato a Elvis Presley da Baz Luhrmann, verrebbe da pensare che sia in corso una seconda o terza giovinezza per l’icona dirompente e immortale della musica statunitense. Non è così, almeno non a livello musicale, popolare.
Gli unici a beneficiare di questa doppietta di film dedicati a Elvis sono stati i rispettivi interpreti. Sia per Austin Butler sia per Jacob Elordi, seppur in modo differente e con una risonanza variabile, il ruolo del divo nel rispettivo film biografico ha segnato una svolta di carriera. Essere Elvis in un film biografico di cui il cantante non è il centro attivo della storia ha dato loro la possibilità di posizionarsi sulla mappa, di farsi conoscere come interpreti, oltre che di mettere in mostra l'innegabile avvenenza che li ha portati su piccolo e grande schermo. Interpretare Elvis, ricalcarne la voce, le movenze e il cantato, ha permesso loro di essere credibili come attori e non solo come bellocci.
Un risultato affascinante, considerando che i due film in questione fanno l’esatto opposto: in qualche modo diminuiscono la potenza dell’uomo e dell’icona in questione. Due pellicole agli antipodi, che hanno in comune solo un punto: togliere l’agency, direbbero gli anglofoni, al re del rock ‘n roll, renderlo spettatore e burattino della sua stessa vita, del suo stesso film. Il re degli anni ‘50 e ‘60, il sovrano decadente di Las Vegas nei decenni successivi viene riletto negli anni ‘20 del secolo in corso come un manipolato o un manipolatore, sempre un debole, mai al centro della scena. Come e perché? Vale la pena di confrontare i due film che lo raccontano, ora che siamo in grado di farlo.
Elvis come marionetta: “Elvis” di Baz Luhrmann
Sul il regista australiano di “Moulin Rouge” il mito sontuoso, decadente, elaborato e intrinsecamente statunitense di Elvis ha esercitato un fascino irresistibile. Pochi cineasti oggi hanno la sensibilità e l’estetica adatte a raccontare un figura così improntata all’eccesso, perforando tutto ciò che di stereotipo e caricaturale la circonda per tentare di coglierne una verità.
Luhrmann mette Elvis al centro della sua pellicola sin dal titolo, ma con un ruolo inedito: quello di qualcuno che viene manipolato da agenti esterni e pian piano viene corroso e distrutto dall’incapacità di prendere le redini della sua vita.Non è una lettura così distante dalla realtà storica che biografi e giornalisti hanno raccontato negli anni successivi alla sua morte. Nel film di Luhrmann però il colonnello Tom Parker diventa una sorta di grottesco villain che scopre un giovanotto perfetto per le sue mire di successo e lo trasforma in una marionetta. Complice la debolezza dei genitori di lui, continua a muoverne i fili finché le movenze diventano mossette, sostituendo con i farmaci l’emozione e la creatività iniziale dell’artista che ha scoperto.
Non a caso questo film insiste sugli episodi in cui Elvis si piega creativamente e umanamente ai diktat della censura statunitense, al volere dell’industria discografica, alle decisioni del suo manager. Luhrmann regala al cantante solo un piccolo moto di ribellione musicale e umana, a metà film, prima di raccontarne nel dettaglio la lunga, angosciante autodistruzione.
I tempi rendono poi necessario riconoscere il debito musicale che la produzione di Presley ha rispetto alla realtà musicale afroamericana. Una tematica che Luhrmann approccia con grande attenzione e precisione. Il risultato di questa constatazione unita alla struttura narrativa scelta restituisce il ritratto di un ragazzo sensibile e talentuoso il giusto, scelto per il potere del suo corpo - bello, sinuoso, bianco - e lanciato su un palco, strizzato per cavarne fuori ogni dollaro possibile.
In questa visione - frenetica, eccessiva, da incubo - Luhrmann traccia in maniera subconscia una sorta di genealogia della musica di consumo, una stirpe che inizia da Elvis e arriva fino a Britney Spears. È impressionante constatare come certe dinamiche siano perfettamente sovrapponibili, a 40 anni distanza dal loro riproporsi.
Elvis come debole dittatore: “Priscilla” di Sofia Coppola
“Priscilla” di Sofia Coppola è un film fallimentare, poco a fuoco, per nulla incisivo. Lo si capisce da come ne esca fuori con forza una figura che la regista tenta a ogni costo di mettere ai margini, smitizzare, quasi irridere: quella di Elvis, appunto.
Il focus dovrebbe essere su Priscilla, il primo amore, la fidanzata, la moglie e poi la ex di Elvis, raccontata negli anni in cui conosce il divo e intreccia con lui una relazione che si fa ben presto tossica. Anche qui non mancano realtà fattuali a corroborare l’asserzione di Coppola che Presley fosse un marito geloso, possessivo, sporadicamente violento, manipolatore. Profittando del suo status di star e della differenza d’età con la fidanzata adolescente, la plasma a sua immagine e somiglianza, quasi come una Eva ricavata da una sua costola.
Il film di Coppola vorrebbe raccontare la progressiva emancipazione di Priscilla, il suo trovare la propria voce nella trappola in cui il marito l’ha imprigionata: Graceland. Priscilla ci riesce a fine film, quando la storia diventa interessante, la donna trova la sua via di fuga e, purtroppo, le luci in sala si spengono.
A rendere speciale e memorabile il film è l’astio quasi palpabile che Coppola prova per il marito della protagonista. Tanto da inserire nel gran finale una scena di violenza così malgestita da risultare stridente, pretestuosa, male inserita nel crescendo altrimenti molto coerente di una relazione tossica.
Sofia Coppola finisce per rendere questo marito manipolatore il personaggio di gran lunga più memorabile del film. Il giovane Elvis qui è un villain complesso e sfaccettato che manipola la moglie come valvola di sfogo dalle pressioni che subisce a sua volta come artista e uomo. Un prigioniero, un debole che si sfoga sull’unica persona con meno potere e libertà di lui. Questo Elvis è un grumo di maschilismo, machismo, conservatorismo e rapporti malsani con le figure genitoriali che lo rendono un uomo orrendo, grottesco, farsesco, ma anche un grande personaggio tragico.
Sofia Coppola gli nega anche il palco e gli onori musicali della sua leggenda. L’unica performance a cui assistiamo per intero lo vede quasi sempre in controluce, ritratto nella sua parabola discendente, in cui ciò che era innovativo nelle sue movenze e nel suo stile diventa vuota reiterazione. Un “ridi pagliaccio” del rock, che diventa però il momento culminante, tragico del film, molto più della sofferenza della protagonista, raccontata con grande delicatezza, mai incisiva, mai graffiante.
Coppola, involontariamente, finisce per rimettere il dramma shakesperiano di Elvis al centro della scena, regalando una sorta di secondo atto alla caduta di un mito che era stata raccontata dal collega Luhrmann solo 12 mesi prima.
La seconda o terza giovinezza di Elvis è quella della decostruzione, della demolizione. Non ne esce tanto bene come persona, ne esce ridimensionato come artista, ma forse come mai prima d’ora arriva sullo schermo la sua potenza cruda, sensuale, capace d’ispirare la follia mistica di frotte di fan. Elvis smette di essere il re, smette di essere la voce del rock. Diventano centrali il suo corpo, il potere inspiegabile che irradia, la passione irrazionale che suscita. Un mito distrutto, forse, ma tra le sue macerie se ne avverte, fortissima, al potenza inspiegabile, innegabile.
“Priscilla” di Sofia Coppola è nelle sale italiane. “Elvis” di Baz Lurhmann è disponibile per il download e il noleggio digitale su Amazon, AppleTV+, Microsoft e RakutenTV.