Leggi qui tutti gli articoli dello speciale su Kurt Cobain.
Gli anniversari ci fanno sempre tornare un po' a “quel” momento, forse riattivano vecchie sinapsi, chissà. Purtroppo non tutte le ricorrenze sono allegre; fra queste c’è inevitabilmente l'anniversario della morte di Kurt Cobain, giovane promessa del rock, superstar controvoglia, alfiere di un movimento musicale giovanile che in pochissimo tempo da Seattle aveva invaso tutto il pianeta: il grunge.
Ecco, la parola grunge sono sicuro che lasci ricordi dolceamari dentro molti di noi. Purtroppo Kurt non è stato l'unico a perdere la vita precocemente fra quanti hanno operato nel campo del grunge. Abbiamo perso anche Layne Staley. Chris Cornell, Shannon Hoon, Mark Lanegan e molti altri ancora. Forse l'effetto nostalgia viene amplificato proprio da questo: non ci sarà mai nessun revival del grunge. Non sono possibili reunion lucrose, tour celebrativi, dischi nuovi, niente. Il grunge è andato, e forse anche questo contribuisce a conferirgli un alone di incompromissoria purezza.
Mi è stato chiesto di scrivere questo articolo proprio sulla triste fine di colui che il grunge lo ha portato nelle orecchie di tutti, e che probabilmente se fosse vissuto sarebbe stato autore di molte altre notevoli canzoni. Ho indagato per anni sulla sua morte, e spesso mi sono trovato sul punto di credere che ci fosse davvero un complotto dietro la morte di Kurt Cobain. Quello che segue è un riassunto che permetterà a ciascuno di farsi un'idea.
Seattle, la mattina dell’8 aprile 1994. Dopo una segnalazione viene mandato un agente alla residenza di Lake Washington Boulevard. A fare la segnalazione di un corpo senza vita è un elettricista chiamato per riparazioni di routine. Porta il poliziotto nella stanza sopra il garage. L’agente Von Levandowsky, questo il suo nome, riconosce il defunto. Si tratta di una celebrità che fino a quel momento campeggiava in ogni rivista. Anche se non avesse saputo nulla di quello che veniva definito come il nuovo sound di Seattle, Von Levandowsky non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere il musicista più famoso del pianeta in quel momento, Kurt Cobain. Poco dopo sopraggiungono i pompieri e Von Levandowsky verifica l’identità della vittima prendendo i documenti dal portafoglio.
L’identità viene confermata, la notizia arriva in breve alle agenzie di stampa: Kurt Cobain si è tolto la vita (e neanche il grunge se la passa tanto bene).
La scena del delitto mostra: il fucile con cui Cobain si è sparato, una nota scritta a penna, una scatola di sigari contenente il necessario per farsi di eroina, una siringa, 120 dollari sparpagliati, degli occhiali da sole, un cappello, una lattina di soda, una giacca marrone, la custodia del fucile su cui è finito il bossolo, un pacchetto di sigarette e un posacenere sporco. Mentre si fanno gli accertamenti del caso, da una collina antistante la casa un giovane di nome Richard Lee riesce a scattare alcune foto della scena e poi comincia a chiedersi se per caso non ci sia dell’altro rispetto a quanto è stato raccontato. In breve, succede quello che succede sempre quando una persona famosa muore: invasione dei media, dirette televisive, articoli su articoli.
Il corpo viene portato via per gli esami e il verdetto non tarda ad arrivare: suicidio causato da arma da fuoco. La giovane (27 anni) promessa della musica si è tolta la vita con un fucile da caccia dopo aver assunto eroina. Contemporaneamente Richard Lee sviluppa le foto e decide che i media non ce la raccontano tutta. Lee non ha alcuna conoscenza di criminologia, tossicologia, patologia, eppure sarà lui che per primo comincerà a diffondere l’idea che la morte di Cobain possa essere andata in una maniera diversa rispetto alla narrazione collettiva. Per lui qualcuno ha fatto fuori Cobain, il suicidio non c’entra un bel niente. Questo porterà in breve tempo a costruire una gigantesca teoria del complotto dietro alla quale in molti ancora oggi si riconoscono.
E poi c’è la vedova. All’inizio nemmeno lei crede che suo marito si possa essere ucciso. Courtney Love, stella in ascesa del panorama musicale, anche lei con un passato pesante e svariati problemi di dipendenza, chiama il padre del cantante degli Alice in Chains per capire se la morte di Kurt possa essere stata il frutto di una contrattazione di eroina andata a male.
Non dimentichiamo nemmeno Tom Grant, investigatore privato, assunto da Courtney Love nei giorni intercorsi tra la fuga di Kurt Cobain da un centro di disintossicazione e il ritrovamento del suo cadavere. Nonostante un curriculum di tutto rispetto, Grant non riesce a trovare il fuggitivo Cobain. E si reca per ben due volte nella casa in cui Kurt passerà i suoi ultimi giorni. Solo, non cercherà mai nella veranda sopra il garage. Però si prende la briga di registrare tutte le conversazioni con i suoi famosi clienti. Forse per lo smacco, forse per calcolo e probabilmente per sincera convinzione, Tom Grant diventerà la seconda persona a mettere in discussione la dinamica della morte e la successiva inchiesta. Ancora adesso, a distanza di 30 anni, si sforza di capire chi abbia ucciso Kurt Cobain.
Ma il “merito” per aver portato questa teoria al grande pubblico va certamente a Eldon Hoke, frontman della band Mentors col soprannome di El Duce.
Hoke, un assiduo frequentatore del sottobosco dello star system, comincia a dire ai quattro venti di aver rifiutato un'offerta di 50.000 dollari da parte di Courtney Love per fare secco suo marito Kurt.
Per quanto inverosimile, è questa la teoria del complotto che fa breccia nel pubblico. Hoke promuove la sua storia fino al Jerry Springer Show, all’epoca il massimo del trash americano, e la rivista “High Times” gli paga addirittura il test del poligrafo, la cosiddetta macchina della verità. Da questo test emerge che non sta mentendo, o quantomeno è assolutamente convinto di quello che dice. Quando Nick Broomfield dedica un intero documentario (il primo) alla morte di Kurt Cobain è inevitabile che El Duce vi faccia la sua comparsa, così come Tom Grant.
“Kurt & Courtney”, questo il titolo del documentario del 1998, inizia come un onesto tentativo di investigazione sulla morte del cantante ma deraglia pesantemente e finisce con l’essere una sorta di accusa malcelata alla vedova. Ma resta una visione consigliata per chiunque voglia addentrarsi in questa teoria cospirativa. A un certo punto il regista riesce a intervistare il padre della Love, Hank Harrison, con cui lei non aveva rapporti da anni. E sapete che fa il buon paparino? Accusa la figlia di essere la geniale mente criminale dietro al mega-complotto per uccidere Cobain. Tom Grant si lancia invece nel suo solito gioco delle intercettazioni, dichiarando di avere nastri che proverebbero la sua teoria, ma che li pubblicherà solo in caso di riapertura del caso. Ad oggi, a parte le registrazioni che continua a far sentire dagli anni ‘90, non si hanno tracce di queste rivelazioni. Eppure nel 2014 la polizia di Seattle apre un’istruttoria per rivedere l’indagine e le prove e conferma il verdetto di suicidio.
La scena con El Duce/Hoke è molto più delirante. il regista del documentario viene scortato da un pappone fino a un cortile dove il cantante dei Mentors, in evidente stato di ubriachezza, ripete di aver incontrato la vedova Cobain e che questa gli aveva offerto i fatidici 50.000 dollari per far secco suo marito. A quanto dice lui avrebbe rifiutato, ma afferma di conoscere il nome di chi avrebbe accettato. E poi gli scappa detto il nome di un suo amico, o forse degno compare, Allen Wrench, che verrà trascinato dentro questo delirio. Wrench suona in una band insieme al bassista dei Mentors.
Pochi giorni dopo aver filmato la sequenza Eldon muore in un incidente ferroviario, nel senso che si è trovato sui binari del treno e ne è stato travolto. Questa morte tragica ingigantisce l’alone di mistero: la narrazione cospirativa vuole che sia morto per aver rivelato il nome di Allen Wrench e che lo stesso Wrench fosse insieme a Hoke fino a poco prima della morte. Si tratterebbe quindi di un complotto gigantesco in cui chiunque parli viene messo a tacere e cose così. A portare un po’ di chiarezza ci pensa Al Jourgensen dei Ministry, quando pubblica la sua delirante autobiografia. Nel libro afferma di essere stato in compagnia di Hoke e che in realtà quello sia morto rimanendo incastrato con un piede nei binari mentre cercava di far colpo su dei ragazzini. Morto per il gioco del pollo.
Il bassista dei Mentors, Steve Broy, confermerà infine nella sua autobiografia che tutta la vicenda era un espediente pubblicitario studiato a tavolino per sfruttare la morte di Kurt per trarne un po’ di pubblicità.
Anche Harrison farà la sua parte: per anni il padre di Courtney si fa intervistare sostenendo che la figlia sia una tossica, manipolatrice, violenta e con tendenze da piromane. Forse questo astio deriva dai rapporti non proprio idilliaci tra padre e figlia, con lei che lo ha accusato pubblicamente di averle dato LSD quando lei era bambina e lui faceva il manager dei Grateful Dead - dai quali però è stato cacciato per aver denunciato lo spaccio di eroina tra i membri della band. Harrison scriverà un bislacco libro chiamato “Love Kills”, pubblicandolo pochi anni prima di morire. Nelle sue pagine c’è di tutto: inizia cercando di scagionare la figlia e finisce accusandola di ogni sorta di nefandezza. Dice che Courtney avrebbe avuto una carriera da mistress sadomaso, che gli rubava in casa per pagarsi l’eroina, che era rimasta ripetutamente incinta, che era invischiata con la mafia giapponese e che era persino coinvolta nella morte di Gianni Versace. Senza portare prove, naturalmente. Pensate che esiste un libro, l'autobiografia del fisico Jack Sarfatti, in cui racconta di essere stato contattato da viaggiatori del tempo da bambino, e per questo di essere stato messo in una scuola per bambini speciali con lo scopo di creare una razza di super studenti tipo X-Men. E afferma - tra l'altro senza essere mai smentito - che tra i bambini ci fosse il padre di Courtney Love, Hank Harrison.
Tom Grant cercherà un approccio più sobrio e investigativo col suo documentario “Soaked in Bleach”. Viene messa in scena la prospettiva di Grant, con attori che recitano le parti mentre molte delle famose registrazioni clandestine del detective vengono svelate. E ci sono persino fior di esperti nel campo della tossicologia, della patologia, della grafologia, e persino l’ex capo della polizia di Seattle. Ma alla fine il verdetto non cambia: l’indagine sarà anche stata fatta male e in maniera frettolosa, ma praticamente tutti gli intervistati convengono che si sia trattato di un suicidio. Solo che quelle parti di intervista vengono editate fuori dal montaggio finale, con seguito di proteste da parte degli interessati: che finiscono con l’accusare Tom Grant di dare così la falsa sensazione che tutti siano convinti che si tratti di un omicidio camuffato da suicidio.
Courtney Love dal canto suo, oltre a minacciare querele a destra e a manca, rilascia un’intervista all’“Hollywood Enquirer” dicendosi convinta che suo marito sia stato assassinato da gente della CIA per non aver assecondato le loro richieste. E ancora più deliranti, se possibile, sono i suoi post del 2001 sul suo forum Kittyradio, nei quali racconta di come il funerale del marito sarebbe diventato una specie di festicciola in cui il corpo del defunto è stato imbrattato, mutilato e usato per balletti sconci. Richard Lee prenderà queste farneticazioni per vere e ci costruirà su un castello di paranoie e complotti da primato. Finirà coperto di ordinanze restrittive da parte di tutta la famiglia Cobain e dei restanti membri dei Nirvana. Fiero delle sue convinzioni, Lee cercherà persino per due volte di diventare sindaco di Seattle.
A questo quadro vanno aggiunte le morti a breve distanza di Kristen Pfaff, bassista del gruppo di Courtney, del detective Terry e del patologo Nikolas Hartshorne. La Pfaff muore per un’overdose dentro una vasca da bagno nonostante si fosse disintossicata; il detective Terry viene ucciso per strada, fuori servizio, da sicari che poi si scopriranno essere stati assoldati da un cartello della droga su cui stava investigando sotto copertura; mentre Hartshorne, amico di vecchia data della Love, morirà in un incidente di parapendio anni dopo aver effettuato l’autopsia sul corpo di Kurt Cobain. Tutte queste morti verranno usate per comporre un elaborato puzzle che vede Courtney Love come una machiavellica cattiva da fumetto in grado di far ammazzare gente a destra e a manca, di controllare tutta la polizia di Seattle per 30 anni e di condizionare anche quasi tutti i media.
A mio parere la più grande falla di questa teoria (che rimane in ogni caso una delle più famose) è proprio quella di raffigurare Courtney Love come una specie di criminale da fumetto in grado di manipolare i media e di far sparire chiunque si metta nel suo cammino. A leggere bene la biografia della vedova Cobain, invece, a mio avviso il quadro che ne esce è quello di una persona con enormi problemi. Per dire: quando la figlia avuta da Kurt, Frances Bean, la denuncia e chiede che le sia tolta la patria potestà, viene descritta come una persona diametralmente opposta dal supercattivo che questa teoria del complotto vorrebbe. Secondo la figlia, Courtney sarebbe dipendente da tutta una serie di pillole, un’accumulatrice compulsiva a livello tale che uno dei loro cani è morto seppellito da una pila di riviste, una persona che deve dormire con un piccolo estintore vicino al letto perché si addormenta spesso e volentieri con una sigaretta accesa in mano. Difficile far coniugare queste due immagini della stessa persona.
Ma questo non ferma le teorie del complotto. Negli anni in cui ho studiato la triste fine di Kurt Cobain mi sono imbattuto in ogni serie di “verità alternative”. Cobain è vivo e suona in Sudamerica. Anzi no, è vivo ma è prigioniero della CIA in una base segreta insieme agli alieni. Meglio ancora: è morto e a ucciderlo sono stati gli Illuminati, i Rettiliani, gli gnomi.
Ammetto di avere un debole per il mondo delle cospirazioni. La realtà vista sotto quella lente è molto più semplice, è avventurosa come un fumetto o un film catastrofista e mi sono divertito molto a scrivere “Music paranoia”, un compendio delle più assurde teorie del complotto legate alla musica. Ma personalmente credo (e ognuno è libero di pensarla come gli pare a riguardo) che sia un passatempo al quale non bisogna dare troppo spago, perché o impazzisci oppure… se hai ragione arriva Courtney Love a farti la pelle, e non è il caso. Restano comunque molti dubbi non sulla causa della morte, ma su come Kurt abbia passato i suoi ultimi giorni, chi gli abbia venduto l'eroina, sull'indagine un po' carente e anche sul ruolo della vedova, che molto probabilmente non lo ha ucciso, ma non è riuscita a capire la gravità delle condizioni mentali di suo marito.
All'epoca la stampa ha trattato il suicidio di Cobain come una sorta di predestinazione da rockstar, una sorta di copione già scritto che viene appiccicato a tutte le persone famose con problemi, tipo Amy Winehouse per dirne una. Una mistica da celebrità che ci perseguita dagli anni '60 e che non accenna ad affievolirsi. I casi di Britney Spears e Kanye West, entrambi con evidenti problemi mentali ed entrambi messi sotto i riflettori e studiati al microscopio per ogni cosa che dicono o fanno, sono solo i più recenti.
A me, che per prima cosa sono un fan, rimane come a tanti il rimpianto per tutta la splendida musica che Kurt avrebbe potuto darci e che invece non avremo. E forse anche il ricordo dolceamaro di un mondo che non esiste più.
Epìsch Porzioni, autore di “Music Paranoia - misteri, leggende e cospirazioni nel mondo della musica”, da cui è tratta anche una trasmissione su Radio Popolare, studia da qualche decennio il variegato mondo dei complotti: ma non è cattivo, è solo strambo. Co-autore di “Rock is Dead” insieme a FT Sandman, da cui è tratta la celebre trasmissione radio, ha lavorato sulla morte di Kurt Cobain cercando il bandolo della matassa e finendo con un cappello di carta stagnola.