La sferzante critica sociale dei Jethro Tull
Nel 1971, il 19 marzo, i Jethro Tull pubblicarono il loro quarto album "Aqualung", uno dei dischi più rappresentativi della band di Ian Anderson al pari del successivo "Thick as a Brick" (leggi qui la recensione) uscito l'anno seguente. Quella che segue è la nostra recensione di "Aqualung".
Uscito il 19 marzo del 1971, proprio nella fioritura del progressive rock, “Aqualung”, complesso, ritmicamente variegato e irregolare, ma allo stesso tempo accessibile, lasciò di sasso una critica abituata a sonorità folk rock e blues più lineari contenute nei precedenti tre album: “This was”, “Stand up” e “Benefit”, dischi che non lasciavano presagire l’avvento del raffinato “Aqualung”. Una pietra miliare che ha rappresentato un cambio di rotta per i Jethro Tull e una ricerca stilistica rinnovata nel segno di un hard rock capace di aprirsi anche a momenti acustici emozionanti e a diversi mix di suoni. “Benefit”, uscito l’anno prima, fu un successo per la formazione di Ian Anderson, capace di sfondare anche negli Stati Uniti, ma non convinse il pubblico più affezionato e neppure la critica. I dischi successivi sarebbero stati i monolitici “Thick as a Brick” del 1972 e “Passion Play” del 1973, per questo, con una lettura a posteriori, è evidente come “Aqualung” abbia costituito un punto di svolta importante nella lunghissima carriera della band, oltre a essere uno dei migliori album prodotti. Fu un grandissimo successo: disco di platino negli Stati Uniti, con più di 3 milioni di copie vendute, e disco d'oro nei principali paesi d'Europa fra cui l'Italia.
Il disco fu definito un concept album, nonostante Anderson abbia sempre respinto quest'intenzione. Nelle canzoni si ritrovano spesso i temi della vita, della critica alla società, oltre a un dialogo con Dio e a una messa in discussione delle religioni. I brani più significativi in questo senso sono “Aqualung”, canzone capolavoro del progetto, “Cross-Eyed Mary”, “My God”, “Hymn 43” e “Locomotive Breath”. Al centro della narrazione c’è Aqualung, un vecchio vagabondo dal respiro affannoso, il cui nome è dato dal respiratore che utilizza e che, per il suo modo di essere e di porsi, è percepito dalla gente comune come un pericolo, un potenziale molestatore che lancia strane occhiate alle ragazzine. Il rifiuto della povertà si accompagna spesso all’incomprensione, parte da qui la critica sociale della band britannica. Proprio il celebre attacco della title-track, un riff di chitarra potente e incisivo, apre il sipario sulla storia del clochard Aqualung, è la porta d’ingresso al disco. Un altro momento, musicalmente e testualmente rilevante, è rappresentato da “My God”, un brano epico del gruppo, un’invettiva cruda e satirica contro l’ipocrisia del cristianesimo scandagliata attraverso un iniziale riff di chitarra acustica che arriva a contaminarsi perfino con i canti gregoriani.
“Aqualung” colpì il pubblico anche grazie alla celebre copertina raffigurante un barbone, molto somigliante al leader del gruppo Ian Anderson. L'immagine, una delle più famose nella storia del rock, impressionò sin da subito per la crudezza dell'espressione e dello sguardo del volto del protagonista, cui fa da contraltare un manifesto che reclamizza eleganti e dispendiose vacanze natalizie. L’idea di “Aqualung”, il personaggio del disco, nacque dalle foto di homeless scattate a Londra da Jennie Franks, all’epoca moglie di Ian Anderson nonché co-autrice del brano che dà il titolo all’album. La copertina fu realizzata da Burton Silverman, ispirato dalle foto della Franks.
Anche a livello di formazione non mancarono delle novità. Questo è l’ultimo album per il batterista Clive Bunker, nel gruppo vennero reclutati due elementi nuovi, o quasi nuovi. Il primo fu il bassista Jeffrey Hammond-Hammond, vecchio amico di Anderson che rimpiazzò Glenn Cornick. In seguito abbandonerà il gruppo per dedicarsi alla sua vera vocazione: la pittura. Alle tastiere entrò nella band un’altra vecchia conoscenza di Anderson, John Evan. Tutti i componenti contribuirono a creare un album, sotta la direzione di un monumentale Ian Anderson, dall’atmosfera immediatamente riconoscibile ancora oggi dopo oltre cinquant’anni.