"Deliver Me From Nowhere", il titolo originale di questo libro, è anche la frase conclusiva di “State trooper”, uno dei migliori brani che compone “Nebraska”. E questo libro è, a mio parere, uno dei tre migliori in assoluto tra le decine che raccontano Bruce Springsteen, insieme alla primissima “bibbia” firmata da Dave Marsh e all’autobiografia “Born to run”. Lo è pur concentrandosi su due soli album: uno dichiarato nel sottotitolo, “Nebraska”, e uno che si rende onnipresente per spiegarne la genesi come in antitesi, “Born in the U.S.A.”.
Warren Zanes, il suo autore, negli anni ’80 era chitarrista nella rock band bostoniana dei Del Fuegos: la sua è una penna sopraffina, al livello della sua capacità di inchiesta e narrazione, e ci spiega come e perché “Nebraska” fu dapprima accolto come un album insolito, poi assurse a disco di culto per poi essere ritenuto oggi una autentica perla - forse la più preziosa dell’intero catalogo di Springsteen. Nel focalizzarsi su “Nebraska”, Zanes immortala l’artista in una versione più dylaniana di Dylan stesso mentre rivela l’uomo alle prese con una crisi personale che ne alimenta l’ispirazione.
È la storia di una raccolta di demo che risultò impossibile da trasformare in una collezione di “vere” canzoni, tanto meno da suonare insieme alla E Street Band, e che uscì così com’era nata, quasi per sfinimento dopo tanti tentativi frustranti. Scaturiti in reazione al disagio che l’autore avvertiva in seguito al successo di “The River”, ironicamente quei pezzi sarebbero diventati il prologo e l’anello di congiunzione con il successo globale di “Born in the U.S.A.” – due facce della stessa medaglia, dello stesso periodo, eppure così distanti da suonare oggi come appartenenti a epoche diverse. Anche per questo ha senso parlare di “Nebraska” come di un’opera d’arte che, per certi versi, porta le stigmate del genio inconsapevole; così come ha senso parlare della decisione di Springsteen di pubblicarlo in quella forma come una sorta di errore geniale.
Zanes intervista a lungo Springsteen: e lo fa parlare accettandone le reticenze e usandone anche i silenzi o le risposte monosillabiche come momenti molto eloquenti, più efficaci di qualsiasi commento. Rievoca il contesto da cui prese forma una serie di demo registrati nella sua casa in affitto dell’epoca, a Colts Neck nel New Jersey, con chitarra e voce su un TEAC 144 a quattro tracce. Furono poi fissati su una cassetta qualsiasi che Bruce avrebbe consegnato a Jon Landau senza custodia e con ancora addosso la lanugine contenuta nella tasca in cui la conservava. L’amico e manager uscì preoccupato, a livello umano, dall’ascolto di testi che erano pugni e di suoni che erano grezzi e taglienti, impregnati dell’influenza cupa di "Badlands" di Terrence Malick (film del ’73 girato intorno ai crimini efferati di Charles Starkweather) e asciutta come la prosa di Flannery O’Connor.
Zanes ha molti meriti, qui, tra cui quello di far scorrere la ricostruzione storica di un episodio discografico di 42 anni fa come un romanzo avvincente per qualsiasi fan. E pure quello di analizzare e spiegare meglio di chiunque altro che il fatto che questo particolare insieme di tracce sia diventato questo particolare album proprio nel mezzo delle sessioni di "Born in the U.S.A.", dopo tutto, non sia un caso.
La sua è la cronaca incredibile di uno degli album più improbabili mai registrati, imprescindibile per chiunque si definisca o si creda uno springsteeniano.
(Giampiero Di Carlo)
Dall'edizione italiana di "Deliver me from nowhere", nelle librerie da ieri venerdì 15 marzo per Jimenez nella traduzione di Alessandro Besselva Averame con il titolo "Liberami dal nulla", pubblichiamo qui di seguito un estratto per gentile concessione dell'editore. Stando alle voci che arrivano da Hollywood, Springsteen starebbe lavorando con Scott Cooper a un film sulla realizzazione di "Nebraska", con la sceneggiatura basata su questo libro.
Stando ai ricordi di Springsteen, la prima canzone che venne fuori fu "Mansion on the Hill". Sulle origini del brano ci sono diverse versioni. A quanto pare alcuni frammenti di "Mansion on the Hill" erano già apparsi qualche anno prima, in un taccuino risalente all’epoca di DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN. Ma erano solo semplici immagini, non ancora inquadrate all’interno di una storia, come dei randagi in cerca di casa. Come raccontò tempo dopo a Don McLeese, in seguito il processo di scrittura si velocizzò parecchio:
"Ero a casa da appena un mese, e incominciai a scrivere tutte quelle canzoni. Le scrissi davvero in fretta. Due mesi per l’intero disco, e per me è un tempo davvero brevissimo. Mi sedevo alla mia scrivania, e questa cosa mi affascinava. Era uno di quei casi in cui non ci pensi quasi. Ci lavori, ma fai qualcosa che non immaginavi di fare. Sapevo di voler realizzare un disco di un certo tipo, ma di certo non ne avevo pianificato la realizzazione".
Con "Mansion on the Hill" accadde qualcosa di notevole, e non era la prima volta. Springsteen prese un titolo già esistente e ci costruì intorno un’altra canzone. Naturalmente non rubò "Hey Jude" o "Night Moves". L’appropriazione di Springsteen metteva il piede in un passato particolare, un passato più remoto e inconfondibilmente sudista, nel quale moltissima musica americana aveva trovato la propria personalità e le proprie aspirazioni. L’aveva già fatto una volta con "Wreck on the Highway", su THE RIVER.
Nessuno dei titoli presi in prestito da Springsteen è anonimo. E il suo “furto” non è un’azione clandestina. Avveniva tutto allo scoperto, era soprattutto un modo per dichiarare una discendenza. Springsteen aveva parlato liberamente del suo crescente interesse nei confronti della musica country, in particolare negli anni che avevano preceduto NEBRASKA. Percepiva un legame, che era stato stretto in tenera età, con la vita rurale che animava molta di quella musica.
«All’epoca, nella mia infanzia, c’erano città e campagna» mi ha detto. «Niente vie di mezzo. Non c’erano le periferie. O vivevi in città, o vivevi in campagna. Eravamo molto a contatto con la vita agricola, in parte perché mio nonno aveva a che fare con i lavoratori migranti provenienti dal Sud. Vendeva loro delle radio e roba che recuperava nella spazzatura. Era un altro mondo. Ma le due, città e campagna, sembravano molto più vicine allora».
La musica country lo fece riavvicinare a quella realtà, e quei titoli lo fecero riavvicinare a un mondo che non esisteva più. Addentrarsi in uno di quei titoli, in quanto autore di canzoni, era come indossare i vestiti di qualcun altro. E Springsteen era interessato all’impalpabile presenza degli uomini da cui li prendeva in prestito.
"Wreck on the Highway", su THE RIVER, traeva il titolo da una canzone che era stata scritta da Dorsey Dixon nel 1937 e resa celebre da Roy Acuff, il quale sostenne fosse roba sua fino a quando Dixon non andò per vie legali. Negli anni successivi alla pubblicazione della versione di Acuff, "Wreck on the Highway" divenne una specie di standard del country e del bluegrass. Dal canto suo, "Mansion on the Hill" ha un antecedente in un pezzo di Hank Williams intitolato "A Mansion on the Hill", accreditato a Williams e all’editore Fred Rose e inciso nella prima fase della tanto breve quanto straordinaria carriera di Williams.
La scrittura di "A Mansion on the Hill" rivela le differenze tra la cultura legata al songwriting country e quella, ad esempio, della tradizione cantautorale anni Settanta. Il più delle volte, nella cultura country, il processo creativo che dava vita a una canzone non aveva alcunché di mistico. Wesley Rose, il figlio di Fred, sostiene che Hank Williams fosse entrato nella vita di Fred mentre padre e figlio erano impegnati in una partita di ping pong. Nel tentativo di assicurarsi che Williams fosse l’autore delle canzoni che gli stava proponendo, canzoni che l’editore aveva valutato essere roba piuttosto forte, Fred Rose chiese a Williams di scrivere qualcosa lì su due piedi. Rose gli diede un tema su cui lavorare, che Colin Escott sintetizza in “una donna lascia l’unico uomo che ama davvero per sposare un uomo con i soldi”. Williams si ripresentò da Fred Rose con "A Mansion on the Hill". Fred Rose fu accreditato come coautore e mise sotto contratto l’artista della vita. Lavorarono ad altre canzoni, e questo era solo uno delle migliaia di modi in cui poteva nascere una canzone.
Escott tuttavia mette in discussione la veridicità della versione di Wesley Rose sull’origine del brano, offrendone un’alternativa, riportata dalla vedova di Hank Williams, Audrey. Da quello che ricorda costei, Fred Rose diede a Hank Williams il titolo, A Mansion on the Hill, e Williams se lo portò a casa trasformandolo in una canzone. L’obiettivo era comunque lo stesso: offrire a Williams la possibilità di dimostrare il proprio talento. Ma il grande Hank Williams si bloccò, continuava Audrey, fino a quando lei non lo aiutò a trovare la strada giusta. Non accreditata.
Escott spiega poi che, se pure Williams aveva preso il titolo da Fred Rose, la melodia l’aveva soffiata a Bob Wills. Era il genere di cose che accadevano all’epoca. Temi, titoli, melodie: l’importante era tirare fuori una canzone, anche se non era farina del tuo sacco. E l’espressione inimitabile del singolo artista, la canzone intesa come confessione che proviene dall’anima? Erano idee che appartenevano a un’altra idea di popular music. La cultura della musica country, così come quelle del blues e del gospel delle origini, non prestava troppa attenzione al processo di scrittura. La semi-idolatria associata alla voce individuale del songwriter è qualcosa che ha più a che fare con la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, con un mondo che associamo a Joni Mitchell, James Taylor e altri. Nella musica country potevi andare a rubare di notte sapendo che molto probabilmente avresti incontrato qualcun altro impegnato a fare la stessa cosa.
Nel prendere un titolo dallo scaffale, "Mansion on the Hill", Springsteen si allineava a una tradizione completamente differente, nella quale ci si poteva appropriare di parole, melodie e titoli, e personaggi come Dorsey Dixon potevano scomparire nel nulla mentre le canzoni che avevano scritto andavano avanti senza di loro. All’epoca non esistevano rockstar, solo un sacco di lustrini e di strass sulle schiene di operai.
L’anonimato era sempre lì a un passo, e gli “artisti” erano quelli che realizzavano quadri e sculture.
Mentre il suo compagno di band e recente coproduttore Van Zandt stava cercando di aggiungere la dicitura “frontman” al suo curriculum, Springsteen se ne stava da solo in New Jersey e cercava di scomparire, di essere anonimo in un certo senso, un Dorsey Dixon. La sua ambivalenza nei confronti della celebrità, o quanto meno la sua mancanza di fiducia nella stessa, era più viva allora che in qualsiasi altro momento della sua carriera. Sentiva di non avere più niente in comune con la gente con cui era cresciuto e di cui scriveva, ma non si sentiva a casa neppure nel posto in cui era finito, in quanto celebrità.
C’era, come mi ha detto, «parecchia roba strana nell’aria». Per cui voleva «essere invisibile». Si creava una specie di effetto, quando si scrivevano canzoni muovendosi all’interno di titoli scritti da altri, che non era paragonabile solamente all’indossare i vestiti di qualcun altro: era come indossare una maschera. Non si trattava esattamente di essere invisibili, ma era qualcosa che ci si avvicinava. Quello era sicuramente il posto giusto per avviare un progetto incentrato sull’invisibilità.
"Mansion on the Hill" aprì la strada, fornì un punto di partenza, che Springsteen pensasse di iniziare qualcosa o meno.
In un’intervista con Dave Marsh pubblicata su "Musician" nel 1981, Springsteen, sul punto di realizzare NEBRASKA, descrive il suo interesse per la musica sudista di ieri e oggi:
"Ritirai fuori il primo rockabilly perché… era gente assai misteriosa. C’è questa canzone, 'Jungle Rock' di Hank Mizell. Dov’è Hank Mizell? Che gli è successo? Che tipo misterioso, un fantasma. E poi metti su quel pezzo e riesci a vederlo. Te lo immagini che se ne sta in qualche piccolo studio, all’epoca, e non fa altro che cantare quella canzone. Senza motivo [ride]. Non ne sarebbe venuto fuori niente. Non vendette. Nessun Numero Uno, e niente concerti nelle arene. Ma che momento, che mo-
mento mitico, e che mistero. Quei dischi sono intrisi di mistero. Come uomini selvaggi che saltano fuori da chissà dove, e, accidenti, sono così vivi. La gioia e l’abbandono".
Come in risposta al disagio e alla disconnessione che aveva provato nei confronti del proprio successo con THE RIVER, Springsteen era attratto dagli “uomini selvaggi” della musica americana, da quei fantasmi, da quelle figure dimenticate e lontane nel tempo che percepiva come “intrise di mistero”. Quelli che avevano lasciato un segno senza neppure conoscere il successo. "Wreck on the Highway" e "Mansion on the Hill", titoli presi da altri, avevano avvicinato Springsteen ai loro mondi.
Quando gli ho chiesto che cosa stesse succedendo in quel momento, Springsteen mi ha detto: «Riuscivo a percepire che stava accadendo qualcosa di diverso, ma non ci pensavo granché. Mi piaceva quella musica, la ascoltavo, ovviamente, ma non c’era alcun fine superiore nell’idea di utilizzare quei titoli, nulla di intenzionale. È semplicemente accaduto». Ma quel percorso che aveva intrapreso esplorando una particolare fase della musica americana del passato creò una connessione con il mondo della “musica hillbilly”, e con il passato di un’America rurale e povera, che traspirava in tutto NEBRASKA. Anche se la casa di Springsteen aveva un indirizzo civico di Freehold.
Alcuni anni dopo, presentando "Mansion on the Hill" durante un concerto, Springsteen descrisse i giri in macchina per Freehold con il padre che avevano caratterizzato la sua infanzia. «La sera papà mi portava a fare un giro in macchina. E giravamo per la città» disse. «Era buffo, avevamo sempre vissuto lì, eppure facevamo i turisti. Passava davanti a quelle belle e grandi case e il tutto aveva sempre un che di mistico. Non capivo che cosa c’entrassero quelle persone con me o con mio padre o con quello che eravamo».
Il tema che Fred Rose aveva suggerito a Hank Williams per "A Mansion on the Hill – “una donna lascia l’unico uomo che ama davvero per sposare un uomo con i soldi” – è distante da quello della "Mansion on the Hill" di Springsteen. La storia di amore perduto di Williams, con l’uomo che, dalla sua baracca, guarda in direzione della “villa sulla collina priva d’amore”, tocca vecchi tasti, ad esempio l’idea che il denaro non possa comprare la felicità e che la vita “vera” si svolga nel lato povero della “città”. Al contrario, "Mansion on the Hill" di Springsteen non cede né al sentimentalismo né a un facile moralismo.
E, cosa ancora più importante, il punto di vista che conta di più nella sua versione è quello del bambino, il quale vive in un mondo in cui l’amore e il ceto sociale ancora non hanno incominciato a riorganizzare la vita:
At night my daddy’d take me and we’d ride
Through the streets of a town so silent and still
Park on a back road along the highway side
Look up at that mansion on the hill
In the summer all the lights would shine
There’d be music playing, people laughing all the time
Me and my sister we’d hide out in the tall corn fields
Sit and listen to the mansion on the hill
("La sera papà viene a prendermi e giriamo
Per le strade di una città così silenziosa e immobile
Parcheggiamo in una stradina a fianco della highway
Osserviamo quella villa sulla collina
In estate tutte le luci risplendono
Si sente della musica, le persone ridono sempre
Io e mia sorella ci nascondiamo nei campi di mais
Seduti ascoltiamo la villa sulla collina").
Quello che manca è una qualsiasi forma di giudizio. Il mondo dei bambini, nascosti nei campi di mais, non viene presentato come più puro di quello fatto di musica e risate che si sente provenire dalla villa lontana. E lo splendore di lassù non diventa uno scontato simbolo di avidità. La scena potrebbe essere tranquillamente tratta da una fiaba, avulsa da qualsiasi contesto storico. La villa è circondata da cancelli di acciaio, ma è impossibile interpretare quei cancelli come qualcosa che separa i buoni dai cattivi.
«Credo che un adulto che si mette a parlare di classi sociali» dice della canzone il songwriter Dave Alvin, «corra il rischio di essere dogmatico, se invece la scena la descrive un bambino c’è questa specie di sensazione di meraviglia. Si tira fuori qualcosa di ancora più profondo. È uno dei motivi, credo, per cui quella canzone mi ha colpito così tanto. Riesco a percepire il profondo attaccamento emotivo all’argomento trattato».
Matt Berninger dei National descrive una sensazione simile in riferimento alla prospettiva del bambino e al modo in cui si pone in relazione con "Mansion on the Hill":
"Quante persone in questo paese non posseggono nulla mentre poche altre hanno il 99 per cento di tutta la ricchezza e di tutte le risorse? Quell’idea della villa sulla collina, di possederne una, è potente, e implica il fatto che un sacco di gente lavori duramente per fare sì che il tizio che possiede quella casa possa esistere. Questa è l’America. Il sogno americano reso tossico. Qui abbiamo risorse a sufficienza per tutti, ma finché tutti quanti sogniamo quella villa… cazzo. Però la pensiamo in maniera diversa quando la cosa viene vista attraverso gli occhi di un bambino. Quella prospettiva ci colloca in una posizione più ambigua".
Quel punto di vista, all’interno della canzone, ci permette di ottenere qualcosa che va ben oltre una lettura a senso unico del sogno americano.
«Mi interessava la complessità, certo, la complessità umana, e il non dare dei giudizi» mi ha detto Springsteen. «Volevo limitarmi a presentare le cose così com’erano. Non la mettevo sul personale, di certo non in quel disco».
Quando le canzoni incominciarono ad arrivare, fu ben presto evidente che anche i personaggi più tormentati di NEBRASKA eran ben lontani dall’essere sottoposti a un banale giudizio morale. Non era quello il teatro in cui recitavano. Il mondo delle canzoni che abitavano non prevedeva una facile scelta tra bene e male. Ma il punto di vista del bambino, guidato più dalla curiosità e dalla meraviglia che dal giudizio, non si limitava a fornire una via d’uscita da quella contrapposizione, portava Springsteen nel mondo della sua infanzia. "Mansion on the Hill" possiede esattamente quel genere di atmosfera. La temporalità della canzone è fluida, non rigida. Arrivati all’ultima strofa, è possibile che chi parla sia ormai cresciuto, ma è difficile stabilirlo con certezza.
La voce fluttua all’interno della canzone. Stabilisce il tono di un disco radicato nell’infanzia di Springsteen.
Dov’è, si era chiesto Springsteen al termine del tour di THE RIVER, casa mia? Il luogo da cui proveniva, un’umile casa di Freehold, o quello verso cui era diretto, ovvero un successo che andava al di là di qualsiasi ragionevole aspettativa? Come avrebbe scoperto in seguito, mentre le canzoni venivano fuori velocemente e senza alcuna pianificazione, il materiale di NEBRASKA perseverava nel porre questa domanda alla quale non era possibile dare una risposta, senza offrire alcun sollievo dall’indeterminatezza del tutto. Le canzoni riportavano Springsteen indietro e tuttavia lo tenevano separato dalle persone che aveva incontrato in quel passato. I suoi giri solitari in auto, come una sorta di rievocazione di quelli fatti col padre durante l’infanzia, rivelavano un qualcosa che era stato accantonato. «I fantasmi di NEBRASKA» avrebbe scritto in seguito, «provenivano dalle mie innumerevoli incursioni nelle strade della piccola città in cui ero cresciuto».
Questo significava che i brani di NEBRASKA erano legati all’infanzia di Springsteen più di quelli di qualsiasi altro suo album. «"Mansion on the Hill" era solo un ricordo d’infanzia» ha detto, «ma mi permise di affrontare i conflitti che percepivo». Quando ho chiesto a Springsteen se si sentisse fuori o dentro i cancelli d’acciaio all’epoca in cui aveva scritto la canzone, mi ha risposto senza esitazione: «Mi sembrava di essere in tutti e due i luoghi. E nell’immediato futuro avrei passato un sacco di tempo cercando di farmene una ragione».
Quella canzone si apriva su un paesaggio molto particolare. Ma quella che scrisse subito dopo, "Nebraska", avrebbe incominciato a popolare quel paesaggio con dei personaggi. Quando arrivò a quel secondo brano – che seguiva a ruota "Mansion on the Hill" – Springsteen diceva di avere “individuato il centro del disco”. E fu a quel punto che il tutto passò dall’essere “mistico”, per riprendere l’espressione di Springsteen, all’essere cupo e inquieto.
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