Kid Yugi: “Faccio rap perché ho paura di non lasciare niente”

“I nomi del diavolo” è un album lucente, come Lucifero. L’intervista.

Il rap di Kid Yugi è come un horror di John Carpenter: attraverso una versione creativa e fantastica mette le mani dentro la carne della realtà, ne racconta la sua brutalità, e allo stesso tempo costringe alla riflessione e all’analisi più profonda. Nelle barre del rapper pugliese, all’anagrafe Francesco Stasi, classe 2001, si mischiano cinema, letteratura, racconto di strada, amori e dolori di una terra con cui non vuole e non può staccare il cordone ombelicale. “I nomi del diavolo”, in uscita il primo marzo, è un album rap diretto, spietato, pieno di sentimenti contrastanti e per questo magico. È lucente, come Lucifero. Non è un caso che Kid Yugi, oggi, sia ritenuto uno dei nomi più importanti e interessanti di nuova generazione.

Partiamo dal concept del disco.
A livello visivo, di teaser e di copertina mi sono ispirato a “Il maestro e Margherita”. Mentre l’idea alla base del disco è arrivata leggendo “Il signore delle mosche”. Mi sono domandato: quanti nomi ha il diavolo? Come cambia nelle varie culture? Da qui la voglia di impostare l’album su tutto ciò, sui “nomi del diavolo”.

Nell’album ci sono storie e visioni che si collegano al come si reagisce al “male” o a quello che genera il “male”. Sono uscite tutte naturalmente o hai dovuto scavare?
È come se il disco fosse già scritto dentro di me. Il concept non è arrivato casualmente, lo avevo già assimilato e fatto mio, bastava solo trovare il giusto modo per farlo uscire.

Questo è un disco rap al 100%, non ci sono annacquamenti o tentativi di compiacimento. Quanto è importante per te questo aspetto?
L’amore per il genere rap è alla base, è fondamentale per me. L’hip hop è l’amore della mia vita. Per me è naturale essere legato al rap. Viviamo in un periodo florido. Dopo cinquant’anni, finalmente, è stato legittimato totalmente. È una cultura che detta legge in tutto il mondo, influenzando dalla moda al parlare. Sarebbe da pazzi fare altro, perché non dovrei fare rap? È così tanto presente in me perché mi ha affascinato sin da piccolo. Mi ricordo del me dodicenne che ha scoperto i Club Dogo alle scuole medie o ancora prima, a otto anni, quando mio cugino scendeva da Torino a Taranto per farmi sentire Marracash. A me ha aperto la mente.

Per una parte del Paese la narrativa è differente: invoglierebbe a commettere reati o comunque azioni negative.
Non è così. A me ha salvato. E dico di più: la musica è positività, costruzione, mai distruzione, al di là dell’oggetto che mette al centro della narrazione. Per sua natura la musica non può generare negatività. La sua essenza è positiva.

Questo album è anche un grande atto di rivendicazione delle proprie radici e di rivincita di un ragazzo del Sud?
Un requisito del genere rap per me è parlare del proprio territorio. Ma questo avviene ovunque. Un rapper di New York parla delle sue zone, della sua città. Io sono un rapper di Taranto che parla della sua terra. Questo è un periodo della mia vita in cui giro parecchio, quindi ci sono anche altre influenze, ma alla base del racconto c’è quello che vivo dove sono nato. Se non parlassi della Puglia tradirei me stesso.

Il pezzo “Ilva” è un esempio.
È un remix del brano “Fume Scure” di Fido Guido (cantante tarantino, il suo stile si contraddistingue per l'utilizzo del dialetto e per l’affrontare tematiche sociali, ndr), il ritornello è quello originale e dice: “Si vede da lontano un fumo scuro, così scuro che non brilla più la luce”. Per noi è una traccia leggendaria. È la più bella canzone mai scritta sull’Ilva. Il pezzo, oltre alle immagini che trasmette, evoca una sorta di mancanza di futuro ed è totalmente coerente con quello che stiamo vivendo a livello mondiale, non solo provinciale. Basti pensare alla guerra o alla crisi climatica, la canzone ha un’attualità disarmante e permette di allargare la lente.

Alcuni rapper, appena hanno un minimo di successo, si trasferiscono a Milano. Tu continui a voler vivere una parte della tua vita a Massafra. Perché è importante?
Milano, per la musica, è una città centrale. Il mio lavoro si sviluppa lì. A Massafra c’è la mia famiglia, i miei affetti. Mi divido tra questi due mondi perché le persone che incontro a Milano sono diverse dalle persone con cui sono cresciuto. A Milano si conoscono tante persone del mondo dello spettacolo e va bene così, ma io ogni tanto voglio parlare anche con il mio amico muratore. Il rischio di rimanere intrappolati in una bolla e di fare un rap autoreferenziale c’è se non si coltivano anche altre amicizie.

Oltre al tuo lato più crudo, nel disco ci sono anche due canzoni d’amore: “EvaeLilith”.
Sono un meridionale, a me la canzone d’amore è sempre piaciuta (ride, ndr). Ovviamente sono state scritte con i miei filtri, non saprei scrivere una canzone d’amore che celebra questo sentimento. Io, infatti, parlo di amori finiti, tossici. Fotografare qualche cosa che è finito mi è più facile, se invece mi gira intorno mi è molto più difficile delinearne alcuni aspetti.

“Lucifero” è una traccia potentissima in cui spieghi che non fai rap per compiacere, per ego, per tifo o per cambiare le cose. E quindi: per cosa lo fai?
"Lucifero" etimologicamente significa "portatore di luce". Il cristianesimo prende in prestito questa figura dalla mitologia greca e si lega, nella natura, alla prima stella del mattino. Questo per dire che ciò che vediamo come ‘negativo’ non è detto lo sia del tutto. È come il mito di Prometeo. Certe volte quello che etichettiamo come ‘sbagliato’, può farci crescere. Tutto il male che provo dentro di me non finirà per nuocermi completamente. Da qui la risposta: il perché faccio rap lo spiego tra le righe della canzone. Faccio rap perché ho paura di morire. Di non lasciare niente. E infatti nel pezzo faccio una digressione su ciò che resta, quando tutto finisce, su quello che lasciano filosofi e musicisti quando se ne vanno per sempre. E mi domando: ‘che cosa resterà di me? L’ombra di ciò che vivo, la biografia del cattivo’.

Il pezzo “L’anticristo” è un manifesto del tuo modo di fare musica?
Sì. Io credo che siano più le nostre paure a definirci rispetto al resto. In ‘Dem’ ho rapppato "avevo un sogno nel cassetto, l'incubo in cassaforte" (traccia contenuta nel primo album ‘The globe’ del 2022).

Le collaborazioni sono varie. Ci sono nomi di nuova generazione, ma anche colonne come Noyz Narcos, con cui evidentemente hai tanto in comune.
Artie 5Five e Tony Boy sono i fratelli con cui ho iniziato il percorso. La nostra carriera è andata avanti parallelamente. Rappiamo rispettando il passato, lo facciamo nel presente avendo coscienza del futuro. Siamo la nuova scena. Noyz Narcos è stato il mio rapper preferito per tantissimi anni, ‘Non dormire’ e ‘Verano Zombie’ mi hanno cresciuto. Se non li avessi ascoltati non avrei fatto il rapper. Geolier è un ragazzo del Sud come me. Simba La Rue mi carica come quando ascoltavo Noyz da piccolo. Su Simba dico una cosa: non voglio che passi il messaggio che il rap porta a compiere malefatte, la musica non può generare negatività, come ho già detto. Poi ci sono anche Tedua ed Ernia, che mi hanno dato una grande mano, sono persone leali, e PapaV, che per stile e cafonaggine è uno dei miei preferiti. (E alla fine è spuntato anche Sfera Ebbasta: quando era stata presentata la tracklist sui social non compariva. Yugi ha scritto: "se l'è dimenticato il grafico", con l'emoji della risata, ndr). 

Vieni sempre preso come esempio di rapper colto che unisce barre crude a riferimenti alti. Ti rappresenta questo identikit?
Le mie principali fonti sono la lettura, la musica e il cinema. Per me, però, non c’è separazione tra alto e basso. La cultura è sulla stessa linea della vita, non è un volo ‘in alto’, non c’è nulla di verticale. Mi viene in mente uno dei discorsi di ‘Will Hunting’ che dice: ‘tu stai qui dentro, ma là fuori c’è un mondo’. Informarsi è un pregio. Vivere, mettendo in pratica le proprie conoscenze, è importante. È un contributo a se stessi e alla collettività. Per questo il legame tra vita e cultura si sviluppa in orizzontale, non ci può e deve essere separazione.

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