Blackmore e Lord fanno parte del passato, anche se il commiato dai due è stato di tono ben diverso. “Lo spirito di Jon”, è ancora Gillan a parlare, “se ne era andato dalla band molto prima del suo corpo. Con Ritchie, inutile nasconderlo, ho avuto i miei problemi. Ora che non è più nei dintorni la qualità della mia vita è migliorata”. “Un musicista fantastico, mi sento onorato di aver suonato con lui”, aggiunge Glover. “Ho imparato tanto al suo fianco, ma oggi sono felice di non far parte della stessa band”. Il messaggio è chiaro: i Deep Purple Mark VIII restano fedeli alla linea ma sono un’altra cosa. E non chiamateli “classic rock”, per favore. Ci scherzano sopra, su questa etichetta, ma fino a un certo punto. Tanto che all’argomento hanno pure dedicato una canzone, “Mtv”, inclusa solo nelle copie europee del nuovo Cd (“decisione della casa discografica che noi non condividiamo”, precisano. “Un disco è un disco, punto e basta. Che senso hanno le bonus track?”). “Da quando ci andammo la prima volta negli anni ’70, le cose negli Stati Uniti sono molto cambiate”, spiega la coppia. “Allora le radio erano davvero libere e i dj trasmettevano tutto quel che volevano, anche album interi. Accendevi la radio in macchina e venivi avvolto da quel suono caldo e potente… Oggi che contano solo pubblicità e bilanci trimestrali tutte le emittenti americane trasmettono solo un genere circoscritto di musica. E’ un peccato che su una stazione hard rock non si possa ascoltare Stevie Wonder, o Marvin Gaye. In America i Deep Purple oggi sono etichettati come classic rock e per noi è quasi impossibile uscire da quel modulo. In tanti si meravigliano che siamo ancora in giro, e anche se abbiamo un disco nuovo nei negozi continuano a trasmettere ‘Smoke on the water’, ‘Hush’ o ‘Woman from Tokyo’. E’ frustrante e il risultato è che lì il nostro pubblico tende ad invecchiare, mentre nel resto del mondo abbiamo un sacco di fan giovani. Ci è capitato di fare concerti davanti a un pubblico di soli teen ager, in Europa, in Asia e in Sud America”. “In un certo senso”, riflette Gillan, “siamo sempre stati una band underground. Ed è a questo che si deve il nostro successo: una parte del pubblico, anche quello più giovane, va alla ricerca di una musica diversa da quella imposta da Mtv, dalle radio o dalle grandi case discografiche. Qualcuno ha detto che, per chi guida, lo stato di sonnolenza indotto dalle radio classic rock è più pericoloso dell’ubriachezza. E’ solo una battuta, ma rende bene l’idea. La canzone parla proprio di quello”. Anche la riproposizione in concerto dell’intero “Machine head”, qualche anno fa, è stato un modo di prendersi gioco delle etichette e delle aspettative dei media, sostengono i due: “Abbiamo semplicemente rimpacchettato il tutto. In tanti ci hanno dedicato articoli e titoli di giornali senza rendersi conto che tutte quelle canzoni, meno una, non erano mai uscite dalla scaletta dei nostri concerti!”.
Nel complesso (e “Mtv” non fa eccezione), “Rapture of the deep” è un disco tosto e in linea con la storia della band: tanti riff, pochissime ballate. “Probabilmente il motivo è che eravamo reduci da diciotto mesi on the road. Ci sentivamo ben rodati e non vedevamo l’ora di metterci a scrivere canzoni nuove”, sostiene Glover. “I riff, e l’improvvisazione, sono sempre stati un aspetto importante della musica dei Deep Purple. In un certo senso siamo sempre stati una jam band e per questo mi trovo in sintonia con quanto sta succedendo in America da cinque, dieci anni” (il bassista ha suonato in studio e dal vivo con una delle band di punta della scena jam americana, i Gov’t Mule di Warren Haynes). “Qualche tempo fa”, racconta, “sono andato a vedere i Widespread Panic in un’università a San Francisco. Sono rimasto sorpreso nel vedere 20 mila persone impazzire di fronte a questo gruppo di persone che arriva sul palco ciondolando, fumando sigarette e indossando la prima cosa che gli è capitata sotto mano. Non sono tanto le canzoni a colpire, ma la scioltezza con cui suonano. Noi abbiamo cominciato nello stesso modo: tutte le nostre canzoni nascono da improvvisazioni, anche se probabilmente sono più strutturate di quelle di una jam band”.
A ricordare che “Rapture of the deep” è un disco d’oggi e non dei ’70 provvedono invece altri indizi: aromi mediorientali nella title track (“Non è una scelta consapevole. Ma viaggiamo molto, e assorbiamo naturalmente influenze diverse”) e temi cruciali di questa epoca, come l’intolleranza religiosa affrontata nel brano conclusivo “Before time began”. “E’ più una canzone spirituale che politica”, spiega Gillan lanciandosi in una lunga e appassionata dissertazione. “Parla di chi ogni giorno uccide fratelli e sorelle nel nome di questo o quel dio. So bene cosa vuol dire, essendo cresciuto in Inghilterra nel bel mezzo del conflitto nordirlandese. E’ sempre successo: anche tra cristiani, non importa se in nome del papa, di Enrico VIII o dell’ordine d’Orange. Così come oggi accade in Iraq tra sciiti e sunniti.. Sono sempre i leader politici e i generali a mandare i soldati a morire in battaglia con la promessa che Dio è dalla loro parte. Eppure Dio è uno solo, per quanti ministri del culto e preti e chiese e cappelle e cattedrali ci siano. Dagli albori del mondo abbiamo avuto un capo tribù, un patriarca, un presidente, un primo ministro o un dittatore pronto a provvedere ai nostri bisogni fisici mentre maghi, stregoni e uomini di religione badavano a quelli spirituali. Lo stesso fanno oggi i rabbini, i preti cattolici e i capi religiosi musulmani. Ma è una cosa estremamente pericolosa: nessuno sa esattamente che cosa sia lo spirito o l’anima umana, nessuno l’ha mai trovata sezionando un cervello. So cosa sia il senso di rapimento e di esaltazione spirituale che si prova uscendo da una chiesa con la voglia di cantare le lodi del Signore, l’ho provato anch’io quand’ero un ragazzo… Dentro tutti noi c’è una forte pulsione spirituale ma credo sia arrivato il momento di usare il nostro intelletto per dirigerla e controllarla. Dobbiamo cominciare almeno a discuterne apertamente, sforzarci di trovare un punto di convergenza”. E pensare che nei '70 l'hard rock era tacciato di disimpegno...