Il 10 dicembre 1972 nasce a Bruxelles, in Belgio, Brian Molko. Il papà è statunitense, la mamma scozzese. All'età di 13 anni a scuola conosce Stefan Olsdal, con cui, una decina di anni più tardi, nel 1994, darà vita ai Placebo. La band, che il prossimo anno festeggerà i 30 anni di attività, ha pubblicato sino ad oggi otto album, l'ultimo di questi, "Never let me go", nel marzo del 2022. Per festeggiare il compleanno di Brian Molko riproponiamo la recensione dell'ultimo disco della sua band.
In un mercato musicale affollato in cui tutto, dopo una prima fiammata di entusiasmo, sembra sgretolarsi davanti all’uscita dell’album di un altro “artista del momento”, i Placebo (qui la nostra intervista) tornano sulle scene come un fulmine, squarciano la notte e riescono ancora a lasciare il segno dopo oltre vent’anni di carriera: la riconoscibilità del loro suono e del loro immaginario, la forza nel raccontare la complessità dell’essere umano restano unici.
Nonostante un intervallo di tempo lungo, sono passati nove anni da “Loud Like Love”, la band di Brian Molko e Stefan Olsdal, dopo l’abbandono del batterista Steve Forrest nel 2015, si ripropone con una rinnovata energia, presentando ancora inni elettronici alternativi, fluidità, distopie, amori meravigliosi e maledetti, battaglie per l’identità, sentimenti tanto veri quanto difficili da gestire. E lo fanno superando una crisi: “Never let me go” arriva sulla Terra dopo un periodo difficile per il gruppo.
L’abbandono di un componente, i continui tour celebrativi che Molko e Olsdal non hanno mai sopportato, ma che venivano richiesti, la poca lucidità con cui hanno costruito gli ultimi album, in alcuni frangenti disastrosi: i Placebo sono stati più volte a un passo dalla fine, dal deragliamento. Proprio come il mondo attorno a noi, quello che viene descritto in modo diretto anche nel nuovo progetto. Nelle canzoni prende campo una società in cui avidità, interessi, sorveglianza speciale e annichilimento dei valori permeano l’esistenza. I Placebo non promettono la salvezza, non l’hanno mai fatto, rigettano le illusioni, ma mostrano un modo diverso di affrontare la vita. Mettono al centro di tutto il cambiamento, soprattutto personale, l’unico totem in cui davvero credono. E a distanza di quasi dieci anni, partendo dall’essere un duo e non più un trio, sfornano un album che i fan di vecchia data ameranno perché intenso, vivo, sincero e ricco di quelle sonorità che hanno reso la band uno dei progetti “benedetti” dall’amico David Bowie e capace di incidere in modo indissolubile nella storia del rock.
“Never let me go” arriva nel momento più difficile della storia del gruppo: poteva essere il colpo di grazia o la resurrezione. È, fortunatamente, quest’ultima. Tornano i muri di suoni, torna l’elettronica, le tastiere, le frasi mantra che arrivano dalle viscere: il tempo non ha alterato la voce di Molko, ma l’effetto nostalgia, per quanto presente, non è il cuore del disco. Alcuni brani infatti sono lunatici e sperimentali come la traccia di apertura, "Forever chemicals", che inizia in modo distorto e ultraterreno. "Beautiful James", ricca di sintetizzatori, è un grido di battaglia contro l’abbandono, ed è uno dei gioielli dell’album. Si prosegue con "Hugz" in cui la lotta per affermare la propria identità è una cavalcata, la parte finale della canzone è nel segno di un rock pesante da cui emerge sempre un riff di chitarra malinconico.
"Happy birthday in the sky" è un saluto a chi non c’è più: un pezzo emotivo e commovente, un altro dei regali più significativi ed emozionanti del disco. "The Prodigal" è sontuoso, con gli archi a fare da padrone, non si lega a nient’altro nel disco e introduce il tema della sorveglianza e del controllo che ritroviamo nell’oscura e sotterranea "Surrounded By Spies". In "Try better next time" riaffiora la melodia più pop e ricorda i Placebo degli inizi, mentre "Sad with reggae" è nel segno del groove del basso. "Twin demons" e "Chemtrails" sono schizofreniche, violente ed energiche. Come contraltare arrivano subito “This is what you wanted" e "Went Missing", ballate sobrie, ma musicalmente di classe, a dimostrazione della doppia anima dei Placebo, sempre intrappolati fra luci e ombre. Si chiude con il suono multistrato e con gli echi di “Fix Yourself”, ultima tappa di un viaggio che nella sua globalità riconnette con la storia senza tempo della band, ma che non ha nulla di polveroso, stantio o passatista.