'Enzo Jannacci - Vengo anch’io': Milano è diventata New York

Un’incredibile galleria di compagni e allievi racconta il genio irripetibile del cantautore

“Ho giudicato che la vita non fosse un modo di star lì fermo ad aspettare le cose che passano accanto: guerre, dolori, serpi, codardi…”: l’elenco di ciò che Jannacci non è stato fermo ad aspettare, affrontandolo di petto, è lungo. Lo fa lui stesso, in uno dei tanti filmati d’archivio che Giorgio Verdelli ha scovato chissà dove e certosinamente messo in fila nel suo documentario “Enzo Jannacci - Vengo anch’io”. 

A un certo punto Claudio Bisio quasi lo sfida, raccontando di quando Jannacci (”il mio maestro”) andò a trovarlo allo Zelig. Il Derby '84, il palco milanese che Jannacci aveva animato per anni con gli amici Cochi e Renato, Diego Abatantuono, Giorgio Gaber e Dario Fo, era chiuso da tempo, lo Zelig ne aveva raccolto il testimone. Verdelli scova tutti i filmati degli aneddoti che gli vengono raccontati, tranne uno: quello di un’esibizione americana (un tour di Sanremo nel mondo negli anni ‘70, che meriterebbe un doc a parte) in cui Jannacci trova un piano, si siede e si mette a cantare “Vincenzina e la fabbrica”, seguito a ruota da Mia Martini. Dori Ghezzi assiste al momento, nessuno però pensa a riprenderlo.

Il resto di quanto raccontato dai testimoni, dagli amici, c’è tutto. Compresi alcuni video, interviste e pezzi inediti, come il dark humour di “Non posso sporcarmi il vestito”, in cui un giovane Jannacci si rammarica di non poter andar a fare visita a una ragazza appena morta all’obitorio. Gli piaceva la morta, ma il sangue gli fa impressione e non può sporcarsi il vestito buono, appunto. Verdelli d’altronde è ormai un peso massimo nella produzione di documentari sulla musica delle icone italiane. Il lavoro su Jannacci arriva dopo quelli dedicati a Paolo Conte, Mia Martini, Pino Daniele, Eros Ramazzotti. Tutti o quasi citati dentro la storia di Jannacci, che a un certo punto fa un’imitazione molto acuta e spassosissima del modo di cantare del giovane Eros.

Quello di Verdelli è un documentario musicale canonico, che in più punti sfiora l’agiografia musicale. Va bene così, anche se dal punto di vista cinematografico “Enzo Jannacci - Vengo anch’io” raramente graffia o sorprende. Jannacci come contenuto è tanto e tale che un contenitore minimale si dimostra perfetto: la sua storia musicale e umana ha bisogno di tutto lo spazio necessario per essere raccontata. La vera sfida è renderla comprensibile a chi quell’epoca non l’ha vissuta e, venendo dall’industria musicale odierna, si trova davanti a una Milano aliena.

“Genio” è l’epiteto più ricorrente utilizzato per descrivere Jannacci dai suoi amici e collaboratori. Uno stuolo di intervistati lo ricorda. L’elenco lunghissimo di colleghi è reso incompleto dal tempo che passa e che si è portato via Enzo e alcuni suoi amici e compagni di lavoro imprescindibili. Rimane comunque uno dei documentari musicali più affollati in cui mi sia capitato d’imbattermi, quello in cui il termine “genio” ricorre più spesso, pronunciato con una certa convinzione. Altre definizioni che vengono date di uno dei cantori della Milano che fu, quella col cuore in mano, sono: “il Buster Keaton dello spettacolo italiano” secondo Francesco Guccini e “uno faticoso, difficile” da Diego Abatantuono, che replica (implora?) di non cercare di farlo piangere, che ci vorrebbe pochissimo. Enzo era faticoso nella vita privata secondo Diego, che è cresciuto alla sua scuola. Troppa energia irradiava da Enzo, troppa spontaneità.

Memorabile anche l’aneddoto che sintetizza il suo sodalizio artistico e umano con Giorgio Gaber. Giorgio, responsabile e tormentato, è lì che da ore si strugge su un testo per una canzone, soffrendo su ogni parola. Enzo entra nella stanza, saluta tutti e poi dice ad alta voce: “ho in testa questa frase: ‘la vita è un buco nero in fondo al tram’.” Gaber allora appallottola il foglio, sconsolato, ma poi replica agli astanti: “tanto non sa come andare avanti”. È una piccola storia, stupenda, che sintetizza la diversità, la complementarietà tra i due artisti, di caratteri e di talenti.

È un peccato che non possano essere Gaber, Tenco e De André a raccontare Jannacci, quella sua passione per la canzone popolare che lo rese tramite tra la tradizione e la composizione di "Via del Campo”. Gli eredi, gli studenti, fanno un lavoro egregio nel colmare i vuoti, nell’omaggiare uno che mai si sarebbe sognato di farsi chiamare maestro. Eppure, spesso non visto, è stato attivamente presente nelle svolte importanti del cantautorato italiano, quando ancora non si definiva tale. D’altronde il rapporto con il successo di Jannacci era “inesistente, una difficile linea mediana tra altissimi e bassissimi”, spiega Paolo Rossi.

L’amico racconta la mossa autodistruttiva di Jannacci all’indomani del successo di “Vengo anch’io”, prima in classifica a Canzonissima. La settimana successiva Jannacci canta al programma “Gli zingari”, precipitando al penultimo posto. “Nemmeno ultimo, penultimo!” commentò infastidito Jannacci, che preferiva “un fiasco travolgente che un successo cordiale”.

“Enzo Jannacci - Vengo anch’io” prova a stare dietro all’energia del suo soggetto, a raccontare il suo enorme repertorio tra canzone, teatro, collaborazioni artistiche, TV e cinema (che non amava). A bordo di un tram, per la strade di Milano, nei luoghi rinnovati e ripuliti che Jannacci cantava. È un ritratto che celebra la sua vita e suscita nostalgia, parziale ma composito. Stupisce per come superi la generazione del protagonista e vada oltre.

L’intervento più bello lo fa Vasco Rossi, che con la sua storia sintetizza alla perfezione la grandezza di un uomo estraneo al protagonismo, con un’attitudine da talent scout. Anni prima, in insieme a un gruppo di musicisti al seguito di Celentano, Jannacci era finito a Norimberga, truffato da un impresario che aveva promesso loro di unire il nascente re del rock italiano con la stella del rock statunitense Elvis, di stanza in una base militare statunitense in Germania. L’impresario era fuggito con gli incassi, i musicisti si erano divisi quattro fichi secchi comprati al mercato con i soli venti centesimi rimasti.

Elvis ritorna verso la fine del doc, citato da Vasco Rossi. Il rocker spiega che quando andava a scuola ascoltava il racconto di Milano in milanese di Jannacci e si sentiva più affine a Enzo che a Elvis in campo rock. Collega anche due hit storiche a pezzi di Jannacci, per ispirazione, percorsi. “Vado al massimo” nelle sue parole è fatta della stessa materia di “Messico e nuvole” di Paolo Conte e Michele Virano, che Jannacci cantava “raccontando l’America malinconica”. "Quelli che...” invece è la radice di “Siamo solo noi”.

Eppure, alla fine, è Jannacci a ringraziare Vasco con una lunga lettera autografa che il figlio Paolo consegnò al rocker dopo la morte del padre. Una lettera che Vasco ha incorniciato e appeso in studio. Jannacci scrisse a Vasco ricordando il loro continuo sfiorarsi. L’aveva visto all’esordio all’Ariston, voleva avvicinarlo, ma ne aveva percepito insicurezza. Jannacci, scrive, aveva visto in quei pochi minuti l’ansia di verità che trasudava dagli sguardi nervosi che gli occhi azzurri di Vasco lanciavano qua e là. Una verità che l’avrebbe connesso ai giovani, allora e oggi.

Di artisti e persone come Jannacci non sembrano essercene più, è la morale sottintesa da “Enzo Jannacci - Vengo anch’io”. Troppo cambiati i tempi, troppo cambiate le città. Milano, dice a un certo punto il responsabile dell’ente assistenziale Casa Jannacci, se perde quel suo avere il cuore in mano diventa New York. Milano New York lo è diventata e, in strade senza osterie e senza teatri, sarà difficile trovare un successore a Jannacci.

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