Enrico Melozzi: “I musicisti classici non conoscono l'armonia”

L’intervista al direttore d’orchestra: “‘Zitti e buoni’ dei Maneskin? Mi ricordava gli Iron Maiden”.

“Tradizione contiene la parola ‘tradire’. Io tradisco la tradizione e la innovo”. Enrico Melozzi, detto “Melox”, compositore, direttore d’orchestra, violoncellista e produttore, classe 1977, è l’uomo delle grandi sfide. Che di solito vince. Ha contribuito alla trasformazione di Achille Lauro da trapper di periferia a wannabe punk rocker, orchestrando per il cantante romano “Rolls Royce”, la canzone che sdoganò il fenomeno Lauro a Sanremo e in classifica: fu un successo. Ha aiutato Elio e Rocco Tanica a (ri)comporre la musica perduta del quintetto de “Le nozze in villa” di Gaetano Donizetti, delicatissima operazione filologica che gli ha dato grandi soddisfazioni. Nel 2021 ha scritto insieme ai Maneskin la storia del Festival di Sanremo, quando “Zitti e buoni” dal palco dell’Ariston spalancò alla band romana le porte del successo internazionale: l’arrangiamento degli archi portava la sua firma. La sua ultima scommessa? Rendere pop la musica tradizionale dell’Abruzzo, la sua terra d’origine, con un concertone da lui ideato che il 29 luglio allo Stadio del Mare di Pescara lo vedrà dirigere un’orchestra di oltre venti elementi in “remix” da lui firmati dei brani che appartengono al folclore della regione. Tra gli ospiti anche Gianluca Grignani e Giusy Ferreri.

Cosa gli hai chiesto di cantare?

“Brani come ‘Tutt li fundanell’, ‘J’Abruzzu’, ‘La jerv a lu cannet’, ‘Vola vola vola’ e ‘Addije, addije amore’, che ispirò l’’Amara terra mia’ rielaborata da Domenico Modugno. Sto facendo cose sacrileghe per questo progetto, aggiungendo pure delle strofe inediti ai brani popolari, rendendoli più attuali. Il loggionismo è la morte di tutto. Quando nel 2021 ho fatto il maestro concertatore della Notte della Taranta ho scoperto che esistono anche i puristi della tradizione. Immagino che usciranno fuori anche quelli della tradizione abruzzese. Pazienza: io mi sto divertendo come un pazzo”.

Come si passa da Achille Lauro e i Maneskin alla musica popolare abruzzese?

“Il vero segreto per fare questo lavoro è conoscere tutti i linguaggi. Io da ragazzino spaziavo da Jovanotti agli Iron Maiden, da Mozart e Bach a Harry Belafonte, da Scarlatti ai Platters. Quando conosci più cose, hai più chiavi di accesso e riesci ad aprire più porte”.



È un limite dei tuoi colleghi, quello di non conoscere tutti i linguaggi?

“Sì. C’è un muro che divide i musicisti classici da quelli pop. Quelli classici conoscono solo la musica classica: sono enciclopedici. Però poi si perdono sull’armonia: non sanno niente. I musicisti migliori che abbiamo in Italia sono quelli del campo pop, che non conoscono per niente il linguaggio classico, ma conoscono e padroneggiano l’armonia”.

Salvi qualcuno, dei classici?

“Solo Giovanni Sollima e Giuseppe Andaloro: sono gli unici due geni che conosco, di quel circuito”.



E gli altri?

“Non conoscendo l’armonia, non sanno neppure improvvisare. Sono musicisti di serie b rispetto ad altri grandi del passato”.



Ad esempio?

“Penso a George Martin: un musicista di formazione classica capace di dare a una rock band come i Beatles quel valore aggiunto enorme che portò alla nascita di classici. Il trombino sul finale di ‘Penny Lane’ è una genialata. Paul McCartney dice che aveva avuto quell’idea dopo aver ascoltato in tv il secondo concerto Brandeburghese di Bach. Sarà sicuramente così. Ma nella parte si sente la mano di un musicista esperto. Se non fosse stato per Martin i dischi dei Beatles non avrebbero avuto certe intuizioni, certi guizzi, come il cluster à la Stockhausen in ‘A day in the life’: solo uno come Martin, capace di abbattere quel confine tra pop e classica, poteva mettere in pratica un’idea del genere”.

Ti senti la rockstar dei direttori d’orchestra italiani?

“Per certi versi sì. Sicuramente sono uno dei più celebri”.

Te lo dici da solo?

“Me lo dice la gente. Per strada mi fermano pur non sapendo il mio nome. Mi chiamano ‘il maestro’”.

Merito del Festival di Sanremo?

“Sì. E del fatto che non ho mai schifato quella kermesse. Nell’ambiente c’è pure chi dice che è robetta. La verità è che non sanno neppure mettere una nota su uno spartito. Arrangiare un brano per Sanremo è un lavoro che richiede serietà”.

“Zitti e buoni” come nacque?

“Lo composi in una nottata, dopo aver scritto una sinfonia e un concerto per chitarra e orchestra. Ero ispirato. Partii dalla linea di basso e poi passai agli archi. Puoi fare una cosa del genere solo quando vieni da trent’anni di ascolto compulsivo dei dischi dei Nirvana, dei Metallica o degli Iron Maiden. La prima volta che ascoltai il brano, il finale mi fece venire in mente ‘Be quick or be dead’”.

Non hai paura di essere bersagliato dai puristi, accostando i Maneskin agli Iron Maiden?

“Non me ne frega niente, dei puristi. La percezione comune che si ha della musica della band è falsata dalla loro immagine, dall’iper esposizione. A me non sembra rock annacquato, il loro”.



Cosa risponderesti a chi li accusa di essere solo un prodotto di marketing?

“Stupidaggini. Usano un linguaggio nato alla fine degli Anni ’50, che gli piace. E lo rielaborano a modo loro, mettendoci dentro i loro contenuti e veicolando i loro messaggi”.



Cos’hanno avuto in più dell’Achille Lauro di “Rolls Royce” e “Me ne frego”?

“La costanza. Avevano lo stesso team di lavoro e lo stesso produttore, Fabrizio Ferraguzzo. ‘1969’ rimane un disco incredibile, fortissimo. Però poi lui ha deciso di cambiare tutto, mentre Damiano e soci hanno proseguito con Ferraguzzo”.

“Uto Ughi è stonato, una cover band di Vivaldi”, hai detto, difendendo i Maneskin dalle critiche del maestro. Avete chiarito?

“No. Mi spiace un po’, perché sono sceso nel dileggio. Il fatto è che Uto Ughi ha suonato ‘Le quattro stagioni’ all’infinito, creando un danno a me”.

Che danno?

“Se la gente continua a pensare che la musica classica sia ancora quella roba lì, è anche colpa sua. Io porto in giro musica classica scritta oggi, attuale”.

Gli arrangiatori che fine hanno fatto, nell’era dei pezzi costruiti sui campionamenti di altri pezzi?

“Non esistono più. Ormai la figura dell’arrangiatore è stata inglobata da quella del produttore, che fa anche il fonico, l’ingegnere del suono. Una volta ai dischi lavoravano decine di persone. Oggi ce ne sono due: il cantante e il produttore. Fare un disco costava 300 mila euro: oggi con 5 mila euro chiunque può permettersi di farne uno. E infatti la musica è piena di immondizia”.

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