Alberto Radius, uno degli ultimi giganti della musica italiana

Il musicista romano è mancato nella giornata di oggi all'età di 80 anni

Raccontare Alberto Radius vuol dire raccontare 60 anni della migliore musica italiana: un’impresa. Ma siccome il Tristo Mietitore è venuto ad esigere il suo ennesimo tributo dal secolo passato è doveroso lanciarcisi.

Radius nasce il primo di giugno del 1942 a Roma. Appena adolescente, è già innamorato della musica e così bravo con la chitarra da essere assunto dai White Booster, tipico complesso da sala da ballo, come andava negli anni ’50. Lo nota Mario Perrone, il maestro del piano bar, che lo vuole nella sua orchestra, che gira i night club di fascia altissima, quelli della dolce vita napoletana tra Ischia e Capri. Nei primi anni ’60 passa con i Campanino, band rock’n’roll partenopea che traeva il nome dai due fratelli leader della formazione e che era già comparsa in “La dolce vita” di Fellini, come accompagnatrice di Celentano. È il coronamento di un sogno, perché il fuoco del r’n’r brucia da anni le corde della chitarra di Radius, che finalmente può dedicarsi ad esso.

Grazie a loro entra in contatto con alcuni dei nomi che faranno la storia del rock italiano: “Ho conosciuto Demetrio Stratos nel ’62/’63, a Ischia: io lavoravo con un gruppetto che si chiamava I Campanino e facevo il night; e lui stava al porto di Ischia già con Fico Piazza e faceva un rockettino che era uno dei primi tentativi di fare musica dove c’era un ristorante. Era una cosa molto soft però molto bella, molto bella”.

Il rock, però, sta cambiando: sono gli anni dei Beatles, e i Campanino cambiano nome in Big Ben’s. Con essi Radius effettua quelle che forse sono le sue prime incisioni, tra cui quella di “C’è chi per amore”, cover non autorizzata di “The Last Time” dei Rolling Stones. La band, uscita dal giro dei night, che sono in fase calante, gira bene e apre spesso i live dell’Equipe 84. Ma le cose, piano piano, cominciano a rallentare, per cui Radius molla i Big Ben’s ed entra nei Simon & Penny, trasferendosi a Milano. Ricordò a Maurizio Becker: “Non erano per niente male: c’era questa bionda americana che suonava il basso, Penny Brown. E questo Simon, che però era quasi sempre ubriaco. Una sera, l’ultimo dell’anno, eravamo a Torino e quel pazzo d’un inglese se ne venne con una canzonaccia piena di insulti all’Italia, con il Questore seduto in prima fila ad ascoltarci: fine della corsa. Prendo la mia 500 e torno a Roma, poi dopo dieci ore di viaggio mi ricordo che Franz Di Cioccio m’aveva chiesto di sostituire Mussida nei Quelli. Faccio inversione e il giorno dopo sono a provare con loro: ci rimasi due anni, poi Francone tornò dal militare e io fui sbattuto fuori malamente”.

Loro sono I Quelli, futura PFM, Francone è Mussida, l’ultimo dell’anno è quello del 1966. Sui Quelli, band beat di seconda fascia (che diventerà di caratura mondiale con la svolta prog), anche se costituita da richiestissimi sessionmen (tra cui quel Giorgio Fico Piazza al basso), Radius lascerà il segno: i quattro 45 giri in cui c’è lui sono le cose migliori incise dalla band, ed è lui, seppure inconsapevolmente, a spingere Flavio Premoli a suonare l’Hammond. Ricorderà il tastierista: “Ho scoperto l'organo Hammond nel 1968. Abitavo con Alberto Radius, più vecchio di me da qualche anno. Fu lui ad "iniziarmi" allo studio di quello strumento magnifico. Trascorrevo molte ore ascoltando Jimmy Smith, il più grande organista blues mai esistito”. Il 23 maggio 1968 è una data fondamentale nella vita di Radius: al Piper di Milano suona questo nuovo chitarrista americano che viene dall’Inghilterra, ma ha il problema che il suo ampli è fermo in dogana. Radius gli presta il suo: il chitarrista è Jimi Hendrix e ogni sua nota scava così profondamente nell’anima di Alberto da trasformarne il modo di suonare, tanto che ripeterà per tutta la vita di aver dovuto smettere di ascoltarlo per non copiarlo inconsapevolmente.

Nel 1969 torna Mussida e Radius è fuori dai Quelli. Ma, come si dice, per una porta che si chiude un portone si apre: il 24 febbraio è negli studi Ricordi di Milano proprio insieme alla ex band e a Dario Baldan Bembo, per registrare “Acqua azzurra acqua chiara” e “Dieci ragazze” con Lucio Battisti. È l’inizio di una lunga amicizia e di un sodalizio artistico che durerà molto. Intanto, però, c’è da guadagnarsi da vivere: a Gilberto Amati, proprietario dell’Altro Mondo di Rimini, il locale notturno più “in” d’Italia, e a Franco Mamone, novello manager ancora di belle speranze, viene in mente di creare una resident band con Radius, Gabriele Lorenzi (tastierista ex Samurai, livornese) e Tony Cicco (batterista, napoletano, proveniente dalla precedente resident band del locale, Le cose dell’Altro Mondo): nasce così la Formula 3, trio sulla scia dei Cream che ricorda nel suono i Vanilla Fudge. Saranno scelti da Battisti per le sue due uniche tournée e sarà a loro che cederà le canzoni più rock che scriverà. Entrati nella Numero Uno di Battisti e Mogol, producono tre album di assoluto livello: “Dies Irae” (1970), “Formula 3” (1971) e “Sognando e Risognando” (1972), in bilico tra rock più immediato e progressive. Sempre nel 1972 esce il primo album solista di Radius, eponimo: una serie di brani registrati con il gotha del rock e del jazz italiani; da uno di essi, “Area”, in cui suonano Demetrio Stratos, Patrick Djivas e Giulio Capiozzo, nasce l’omonima band, che si accaserà presso la Cramps. Il quarto album della Formula 3, “La grande casa” (1973) è un buon lavoro di transizione, dopo il quale però la band si scioglie.

Radius e Lorenzi entrano nel supergruppo prog della Numero Uno (dopo l’abbandono della PFM): Il Volo. Anche qui, due album di assoluto livello, l’eponimo del 1974 e il successivo “Essere o non essere” del 1975, quasi tutto strumentale, a causa di un violento diverbio proprio tra Radius e Mogol. Radius rinfaccia a Mogol di non aver lanciato la band a livello internazionale, come l’autore di testi e produttore avrebbe promesso; Mogol reagisce non scrivendo più neppure una parola per la band, che, viste anche le difficoltà dal vivo (non è schierata politicamente, dato che riunisce musicisti di differenti credo politici), decide di sciogliersi. Radius riprende il lavoro di sessionman e avvia una vera carriera solista, passando alla CGD. Pur continuando a collaborare con Battisti, spesso non accreditato o per la produzione di provini, come racconterà per tutta la vita, contribuisce decisamente all’album rock di Patty Pravo, l’eponimo del 1975 per Ricordi; suona in “Eppure soffia” di Pierangelo Bertoli nel 1976; pubblica, nello stesso anno, il suo secondo album, “Che cosa sei”, con cui avvia una proficua collaborazione con gli autori di testi Oscar Avogadro e Daniele Pace. Col terzo disco, “Carta straccia” fa centro: è il 1977 della contestazione e dell’esplosione di Autonomia Operaia e la sua “Nel ghetto” diventa una hit che pare esprimere il disagio di un’intera generazione. Coi soldi guadagnati apre lo “Studio Radius”, in cui inciderà i suoi dischi successivi, a partire dal bellissimo “America Good-Bye” del 1979.

Sempre nel 1978 arrangia il disco d’esordio di uno dei campioni della new wave italiana, “Suicidio” di Faust’O, collaborazione che continuerà nel successivo “Poco Zucchero” (1979). E nel 1979 si avvia anche quella con una lanciatissima Loredana Berté, prodotta dall’amico Mario Lavezzi, alla quale Radius dona alcuni dei suoi migliori brani: “Folle città” (1979), “Prima o poi” (1980), “La goccia” (1981). Ma il 1979 è soprattutto l’anno dell’inizio del sodalizio con Franco Battiato e Giusto Pio: “L’era del cinghiale bianco” (1979), “Patriots” (1980), “La voce del padrone” (1981), “L’arca di Noé” (1982), “Mondi lontanissimi” (1985) vedono tutti la partecipazione determinante di Radius, in un clima di assoluta libertà creativa. Radius ricordò così quei giorni: “Era uno studio sotto casa mia, un piccolo studio dove lavoravo e che avevo fatto perché vi si lavorava bene, ma si poteva andare di sopra e lì: 'Li vuoi due spaghetti?'. E allora si creava una situazione molto interessante, non una cosa fredda 'tocca a te': è 'quando mi va tocca a me'. Perché non è che tu arrivi alle dieci in un posto e sei il numero uno. Sei il numero uno magari a mezzogiorno e tre quarti, oppure il giorno dopo, oppure mai, oppure tutti i giorni. Però fare il numero uno, ossia una cosa che piace e che la senti, è molto difficile: per cui siccome uno studio a disposizione non si può avere per anni, viene quello che viene, ultimamente”.
I primi anni ’80 sono il periodo d’oro di Radius, che è dappertutto, come un Re Mida: in “Rudy & Rita” di Alberto Camerini (1981), in “Nel Blu” (1983) e “Colpi di fulmine” (1985) di Eugenio Finardi, così come nei dischi del giro di Battiato. È con Alice (“Capo Nord”, 1980; “Alice”, 1981; “Azimut”, 1982), Giuni Russo (“Energie”, 1981; “Vox”, 1983; “Mediterranea”, 1984), Milva (“Milva e dintorni”, 1982), Francesco Messina (“Medio Occidente”, 1983), Giusto Pio (“Legione straniera”, 1982; “Restoration”, 1983).

Poi qualcosa si rompe. Forse ha segnato troppo un’epoca per continuare ad essere cercato nei tempi nuovi: alterna lavori con ex one hit wonder, seppure artisti meritevoli e degnissimi (“Take Your Time” di Kim and the Cadillacs, 1986; “Contrabbandieri di musica” di Goran Kuzminac) e nuove band new wave (i bellissimi “Filosofia dell’aria”, 1987, e “Questo soave sabba”, 1993, degli Underground Life). Dal 1986 finisce nel giro del revival televisivi, prima con la band dei Cantautores e poi come resident artist nello show di Italia 1 “Una rotonda sul mare”, condotto da Red Ronnie, anche se qualche lavoro prestigioso capita ancora, come “Tu vuoi lei” per Mina nel 1987. Esce dal giro grosso rapidamente e tristemente: le ultime cronache lo vedono nel 2007 autore, insieme al fido Oscar Avogadro, di “Musica e parole”, brano con cui Loredana Berté partecipa a Sanremo e che viene squalificato quando ci si accorge che è la nuova versione di una vecchia canzone dei due, passata inosservata ai tempi, tra 1987 e 1988. Tornerà a Sanremo nel 2021, chiamato dai ComaCose a interpretare con loro “Il mio canto libero” dell’antico amico Lucio Battisti.

Chi l’ha conosciuto negli ultimi anni, segnati anche dalla malattia che lo ha condotto alla morte, ha presente un uomo amareggiato, rudemente gentile e disponibile con tutti, ma con la coscienza di chi dalla vita ha avuto meno di quanto abbia dato. La morte dell’amico Oscar Avogadro, nel 2010, lo incupì ulteriormente. Tuttavia ha sempre continuato a suonare, a registrare musica e ad esibirsi. Certo, per necessità. Ma soprattutto perché è stata la ragione della sua vita. Oggi la musica italiana perde uno dei suoi ultimi giganti, che ingratamente aveva dimenticato da tempo.

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