In questi giorni Blanco, al secolo Riccardo Fabbriconi, è sulla bocca di tutti per avere devastato il palco del festival di Sanremo durante la sua (mancata) esibizione la sera d'esordio, martedì scorso, dell'edizione 2023 della nostra manifestazione canora più prestigiosa.
Un mancato ritorno in cuffia ha suscitato la rabbia del musicista bresciano che trascendendo i codici della buona educazione ha sfogato la rabbia e la frustrazione su fiori e fioriere. Ma oggi vogliamo parlare d'altro, oggi Blanco compie 20 anni e lo vogliamo festeggiare andandoci a riascoltare l'unico album da lui sin qui pubblicato, "Blu celeste", nel settembre del 2021, rileggendo la recensione del disco che pubblicammo a suo tempo.
Frasi come “anche se mi avessi accoltellato mi sarebbe piaciuto” o “anche se prendessi un ergastolo sto con te” solcano produzioni in cui pop, un’attitudine rap e punk grezza si mischiano, arrivando a forgiare un disco che, potenzialmente, può catalizzare un pubblico molto vasto. Sì, perché la capacità di Blanco, alla sua prima fatica discografica, è proprio quella di creare uno stile personale e riconoscibile non strettamente legato a un preciso universo sonoro. E ci riesce tenendo il microfono da solo, senza trucchetti o strategie. Tecnicamente non rappa e non si inserisce nei canoni più comuni del rap o del rock, ma l’approccio istintivo alla scrittura, il vigore della musica e l’energia trasmessa attraverso la voce, sono riconducibili a questi mondi. Il tutto è infarcito di ritornelli orecchiabili che lo rendono anche radio friendly. Insomma, Blanco può piacere (quasi) a tutti.
In “Blu Celeste” non ci sono feat studiati a tavolino o ammiccamenti sonori per finire in determinate playlist, incrementando gli streaming. Tutte le produzioni sono del suo “angelo custode” Michelangelo, tranne “Figli di puttana” co-prodotta insieme a Greg Willen, la mente dietro i suoni degli Fsk. Quella di Blanco è una scelta coraggiosa, per nulla scontata, una decisione che il giovane artista di Calvagese della Riviera ha motivato e raccontato nella nostra intervista. Un disco “personale” che non ha bisogno delle parole o delle voci di altri artisti come successo nelle hit con cui Blanco si è fatto conoscere: “Mi fai impazzire” con Sfera Ebbasta e “La canzone nostra” con Salmo, su produzione di Mace.
Riccardo Fabbriconi, questo il suo vero nome, ha imboccato un’altra direzione, anche dal punto di vista dell’immagine: agli orologi con i diamanti e alle derapate con le macchine di lusso di molti suoi colleghi, preferisce le mutande bianche e le corse furiose nei boschi. Un modo di approcciarsi alla vita, anche figlio della provincia, che condiziona la sua musica e che genera un mondo personale diverso da quello che è stato proposto negli ultimi anni da giovani artisti saliti alla ribalta.
I punti di forza di “Blu Celeste” sono musicali e di coinvolgimento, mentre il progetto si rivela un po’ più debole sul fronte testuale. Esclusi pezzi più densi come la title track, “Afrodite” e “David”, la scrittura, seppur a tratti spassosa, in alcuni passaggi è ripetitiva e adolescenziale. Il disco si apre con “Mezz’ora di sole” che si mostra come una carta di identità accompagnata anche dal suono degli archi: “Ti porto con me dove Blanco è cresciuto”, canta l’artista classe 2003. Immancabili “Notti in bianco”, uno dei pezzi che lo ha fatto conoscere, condiviso da Fedez in tempi non sospetti, “Paraocchi” e “Ladro di fiori”, brani già pubblicati. “Figli di puttana” è una sintesi fra l’anima sonora rock e quella più urban di Blanco: “siamo randagi, scappati di casa”.
Le parole in certi frangenti vengono sputate fuori come in un brano selvaggio e post punk degli Sleaford Mods, in altri invece si elevano quasi a una dimensione dolce, in falsetto, angelicata. Blanco gioca spesso con la voce, timbro subito riconoscibile, come succede in “Blu Celeste” dove cerca di metabolizzare una mancanza, un lutto. Stesso processo anche in “David”, uno dei brani più onirici del progetto. “Pornografia (Bianco Paradiso)” è uno dei pezzi più riusciti: adrenalinico e da pogo con tanto di rutto iniziale. “Sai cosa c'è” affonda le radici nel revival mentre “Afrodite”, fra voce in falsetto e suoni di chitarra, regala una canzone d’amore.