“Più che un concerto, sembra una rimpatriata da muretto di Sanba”, sorridono alcuni ragazzi nel parterre. Sanba, naturalmente, sta per San Basilio, il quartiere proletario alla periferia nord est di Roma – spesso al centro delle cronache locali – dove Fabrizio Moro è nato e cresciuto, tra i lotti delle case popolari e i marciapiedi che negli anni hanno spesso fatto da sfondo, in maniera più o meno esplicita, alle storie raccontate nelle sue canzoni. In effetti guardandosi attorno si ha l’impressione che tutti si conoscano, al Palazzo dello Sport: è come se il concerto fosse una grande festa di paese, un raduno, un ritrovo tra amici e conoscenti della vita di tutti i giorni che magari fino a qualche ora prima dell’inizio dello show se ne stavano a chiacchierare del più o del meno ai tavolinetti del bar del quartiere, al campetto o al mercato e adesso invece sono seduti sugli spalti dei vari anelli ad ascoltare la storia di Moro. Che poi è anche un po’ la loro. Sarà che Roma è da sempre lo zoccolo duro della fanbase del cantautore, che per sua stessa ammissione ha faticato il triplo di altri colleghi per portare la sua musica fuori dal Grande Raccordo Anulare, tra successi, crisi e ripartenze (solo nel 2019, a 44 anni, è riuscito a conquistare per la prima volta in carriera il Forum di Assago, dove è tornato ad esibirsi la scorsa domenica), ma l’atmosfera che si respira nel palazzetto sold out è un indice a suo modo emblematico della capacità delle sue canzoni di aggregare, di cementificare attraverso parole e note un forte spirito di comunità, di rappresentarlo.
“Ma che rivoluzione che tutti qui vorrebbero / ma nessuno ha mai il coraggio di prendere il bastone / e darlo in bocca a chi ci vende le illusioni”, canta Fabrizio Moro su “Il peggio è passato”, la canzone con la quale sceglie di aprire l’ultimo concerto – che è anche il più importante – di un anno da incorniciare, tra il ritorno al Festival di Sanremo da vincitore con “Sei tu”, il debutto da regista con “Ghiaccio”, la riappropriazione della dimensione dei live, che per uno come lui, folgorato alla fine degli Anni ‘80 da uno show di Vasco proprio al palasport dell’Eur (“Mio padre aveva una bancarella qui fuori e vendeva magliette per i concerti. Io avevo 12 anni. Il concerto stava per finire e papà mi disse di buttarmi sulla bancarella perché altrimenti ci avrebbero rubato la roba. Vedevo tanti ragazzi che uscivano dal palazzetto e mi è rimasta impressa l'espressione che avevano sul viso. Mi sembra che fosse successo qualcosa di straordinario”, racconta) rappresentano da sempre l’essenza del suo lavoro. Sul palco porta tutto il disagio dei “figli di nessuno”, come ha intitolato, non a caso, il suo ultimo album di inediti: incarna l’insolenza e la disillusione di chi è sempre stato ai margini geografici e psicologici e ha sviluppato spalle abbastanza larghe per sopportare fallimenti e inganni, e ora non si lascia abbindolare più.
In fondo i versi della canzone che dà il titolo al disco uscito tre anni fa, urlati con la gola piena di rabbia all’unisono con i fan, rappresentano il manifesto perfetto della sua filosofia: “Noi siamo figli di nessuno / figli di depressione nel bene e nel male / di odio e rabbia nei confronti di ogni forma istituzionale / lasciati a giocare fra le pecore fuori casa, soli / figli di madri fragili insicure e un po’ volubili / figli di sette Peroni fredde alla vigilia di Natale / di percorsi di recupero per alcolismo adolescenziale / di porte chiuse in faccia / di ‘le faremo sapere’”. “Appena ho messo il piede vicino al palco ho sentito un’emozione talmente grande che non riuscivo a cantare. Ogni volta dentro al camerino mi guardo allo specchio, provo a riscaldarmi e mi dico: ‘Devi fare le prime tre quattro canzoni senza urlare, senza strillare, contenendo tutta la foga e l’adrenalina che hai dentro'. Però non ci riesco: arrivo qui e faccio un casino. Quest’anno abbiamo fatto solo questa data a Roma e quando suono nella mia città puntualmente nel mio quartiere un paio di mesi prima mi cominciano a dire: ‘Fabrì, ci lasci i biglietti?’. Per fortuna stasera avete riempito tutto e quindi mi sono rimasti pochissimi accrediti”, sorride sul palco, tra una canzone e l’altra Moro.
Non è più il 25enne timido, insicuro e impacciato che nel 2000 – quando si faceva chiamare ancora con il suo vero nome, Fabrizio Mobrici – si presentò in gara tra i giovani a Sanremo con “Un giorno senza fine”, che raccontava il difficile rapporto tra due conviventi giovanissimi che andavano incontro alle prime difficoltà della vita, e cha modo suo conteneva già parte della sua poetica. Non è più nemmeno il 32enne che sempre a Sanremo, nel 2007, trionfava tra le “nuove proposte” con “Pensa”, da cantautore cosiddetto impegnato, o che nell’album di quell’anno raccontava in un pezzo intitolato “Questa è benzina” di un uomo che sentendosi abbandonato dalla società minacciava di darsi fuoco. A 47 anni Fabrizio Moro ha fatto pace da tempo con le delusioni e le frustrazioni del suo passato. Però – come ha detto qualcuno – puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo.
Da “Le cose che hai da dire” a “Nun c’ho niente”, passando per “È solo amore”, “Domani”, “Tutto quello che volevi”, “Alessandra”, “Me ‘nnamoravo de te”, “Libero”, “Sono come sono”, la stessa “Pensa”, che si susseguono una dietro l’altra nella scaletta del concerto oltre alle varie “L’eternità”, “Il senso di ogni cosa”, “21 anni”, “Sono solo parole”, “Portami via”, “Pace”: la sua musica è populista nel senso più nobile del termine, nella misura in cui riesce a dare una forma concreta al vissuto e alla quotidianità di chi nel parterre o sugli spalti lo acclama non come un divo, una popstar, ma come il rappresentante “del lotto accanto”. E non si tratta certo di politica: ma della capacità di raccontare nelle proprie canzoni una verità. Che viene evidentemente percepita come autentica, credibile. E crea legami che valgono molto di più di pareti stracolme di Dischi d’oro e di platino.