Lorde, che non aveva ancora 17 anni
Lorde, pseudonimo artistico di Ella Marija Lani Yelich-O' Connor, compie oggi 26 anni ed è a tutti gli effetti una musicista di successo. La ragazza neozelandese ha centrato il bersaglio pieno al primo colpo, quando ancora doveva compiere 17 anni. Era il settembre del 2013 quando uscì il suo primo album, "Pure heroine": un successo planetario, trascinato dalla canzone "Royals". Dopo di allora ha concesso il bis, con "Melodrama" (leggi qui la recensione) nel 2017, e il tris, con "Solar power" (leggi qui la recensione) nel 2021.
Qui a Rockol vogliamo festeggiare il compleanno di Lorde riproponendo la recensione del suo primo album – scritta per noi da Michele Boroni -, il disco con cui per lei tutto ebbe inizio.
Se non vivete dentro un guscio e se a volte vi capita di ascoltare la musica-che-gira-intorno, allora sicuramente conoscerete “Royals”, il pezzo che da qualche settimana sta inondando l'etere italiano, i suoni della rete e pure quelli della tv. Trattasi di una pop song potentissima, diciamolo, tutta costruita su un battito hip-hop minimale, con una melodia che aggancia, voce originale e testo tutt'altro che banale. Lei si chiama Ella Yelich-O' Connor, in arte Lorde, viene dalla Nuova Zelanda, ha da poco compiuto diciassette anni, ma scrive e canta da almeno cinque.
Il pezzo è stato un successone nel paese natale di Lorde, poi ha conquistato gli States – entrando prima nella classifica Alternative di Billboard e poi direttamente tra i primi posti della classifica mainstream, meritandosi anche la copertina del magazine – e infine, grazie esclusivamente al passaparola, si è estesa a tutta la rete, con 60 milioni di visualizzazioni del video su YouTube e due milioni di singoli venduti. Il tutto senza alcun scandalo o provocazione per riempire i colonnini morbosi delle testate online.
Il secondo singolo “Tennis Court” si posiziona sullo stesso livello qualitativo, con un beat asciutto di chi ha imparato la lezione del dubstep applicata al pop e un testo interessante che denuncia il finto conformismo che la circonda (“We’re so happy, even when we’re smilin’out of fear”). Di ragazzine da one-hit wonder ne abbiamo viste parecchie in questi anni e il paragone con Lana Del Rey (dai, su, ora non fate finta di dimenticare il fascino che aveva esercitato su di voi un pezzo come “Videogame”) scatta in automatico.
Ma di solito il fenomeno si sgonfia immediatamente con l'uscita del primo disco. Ecco quindi il primo disco (dopo il fortunato ep che conteneva “Royals”) che Lorde in realtà preparava da oltre due anni. Seppur i pezzi non siano tutti al livello dei due singoli - e il terzo singolo “Team” segna una pesante discontinuità - si tratta di un disco pop elettronico minimale inaspettatamente bello e che rivela un nuovo archetipo pop: Lorde riesce infatti nell'impresa di raccontare da dentro l'adolescenza attraverso un flusso di coscienza poetico e sofferente (l'alcol per dimenticare in “400 Lux”, il senso di morte in “Still Sane”).
Ma, nello stesso tempo, si pone nei confronti della materia con un maturo distacco, grazie ai suoni e alla produzione (molto XX oriented) di Joel Little e in questo il suo manifesto è il penultimo pezzo “White teen teeth” (“I am not a white teeth teen, I tried to join but never did. The way they are, the way they seem is something else, it’s in the blood. Their molars blinking like the lights, in the underpass where we all sit. And do nothing, and love it”). Il disco alla lunga rischia di risultare un po' monotono, complice una certa indolenza della voce di Lorde, e alcuni brani che si perdono un po' per strada, ma considerando la giovane età e la maturità con cui sta gestendo la propria carriera, sono certo che di Lorde ne sentiremo parlare ancora a lungo.