Verso la fine di settembre dell’anno 1982, più o meno quarant’anni fa, usciva in tutto il mondo Nebraska di Bruce Springsteen: un album in bianco e nero come la foto di copertina - così scrissero tutti, al tempo - che il suo autore aveva registrato in casa su un’audiocassetta e che era stato pubblicato così, senza modifiche. Per una volta, l’anniversario vale, perché nei decenni la considerazione per quelle dieci canzoni è cresciuta lentamente e inesorabilmente, e oggi molti vi riconoscono la vetta artistica di uno dei più importanti cantautori del dopo-Dylan: quel disco fatto in casa, in una casa in affitto a Colts Neck, New Jersey, a venti minuti di auto da dove Springsteen era nato 33 anni prima, ha richiesto tempo, molto tempo, per essere accettato così com’era, con i suoi innumerevoli difetti e le sue verità.
È aspro e duro, impossibile da capire fino in fondo, difficile da amare, tanto che lo stesso Springsteen in un certo senso lo rinnegherà: meno di due anni dopo esce con Born in the Usa, jeans e bandana, stelle e strisce, canzoni da radio con la doratura artificiale dell’elettronica. L’opposto di Nebraska, o forse l’altra faccia della medaglia, di certo la strada maestra verso una popolarità globale che ha reso lui ricchissimo e il suo album in bianco e nero una deviazione, l’affaccio su un futuro che avrebbe potuto essere e non fu.
La storia di "Nebraska"
La storia di come venne realizzato Nebraska è nota, ed è unica: Springsteen acquistò un Teac Tascam 144 Portastudio, la prima macchina che permetteva di mixare su una cassetta quattro piste audio. Dice la leggenda che in una notte, il 3 gennaio 1982, in completa solitudine abbia registrato dieci pezzi nuovi (e altri che poi finiranno in Born in the USA), vi abbia aggiunto qualche effetto e che poi per un paio di settimane abbia girato con quella cassetta senza custodia in tasca, e che sia pure andato a fare rafting senza mai toglierla da lì. «Ho molte idee ma non so bene dove sto andando», scrisse al suo manager/mentore. Si pensava di far suonare i pezzi alla band - pare che le registrazioni esistano, da qualche parte - ma poi si decise di pubblicarli così com’erano, superando non poche difficoltà tecniche. Ascoltare Nebraska, con quell’eco da rock’n’roll dei primordi, allora era un po’ come collegarsi a una radio che trasmetteva in onde corte dall’altra parte del mondo.
A risentirlo oggi, sembra che arrivi da un altro pianeta o – come è in realtà – da un altro tempo, dall’era analogica della pietra e del vento.
I racconti di "Nebraska"
La strada migliore che conosco per arrivare al centro di quelle dieci canzoni la suggerisce lo stesso Springsteen, nel programma Storytellers di VH1, nel 2005. Canta e suona un po’ di pezzi del nuovo Devils and Dust e poi anche Nebraska, la canzone che dà il titolo all’album. La introduce parlando di songwriting narrativo: «È liberatorio scegliere personaggi in qualche modo diversi da te, cantare con la loro voce, raccontare la loro storia e insieme la tua. È un tipo di scrittura molto dettagliato, che spesso richiede molte ricerche. Attenzione, però: puoi arrivare ad avere una montagna di dettagli, ma se non tiri fuori qualcosa di tuo, qualcosa che ti venga da dentro, non vai da nessuna parte. Devi scoprire che cosa hai in comune con quel personaggio, chiunque sia, qualunque cosa stia facendo o abbia fatto».
Nebraska (la canzone) racconta la storia vera di Charlie Starkweather e della sua fidanzata Caril Anne Fugate, 18 anni lui, 14 lei, che tra il 21 e il 29 gennaio 1958 uccisero dieci persone e percorsero 500 miglia tra Nebraska e Wyoming prima di essere catturati. La prima parte della canzone di Springsteen racconta la loro storia con una certa aderenza ai fatti (anche la frase «Almeno per un po’ ci siamo divertiti» pare sia stata effettivamente pronunciata da Starkweather), per poi virare sul metafisico, o – come direbbe Springsteen – sul personale: «Mi hanno dichiarato inadatto alla vita, hanno detto che la mia anima verrà scagliata nel grande vuoto. Vogliono sapere perché ho fatto ciò che ho fatto. Be’, c’è una grande cattiveria in questo mondo». Il tutto su una base musicale «infantile e mistica» - ancora parole sue -, fatta di chitarra acustica, armonica a bocca e glockenspiel, una specie di xilofono semplificato che assomiglia molto a certi strumenti per bambini (e che è nel Flauto magico di Mozart, in Little Wing di Jimi Hendrix, in No Surprises dei Radiohead).
C’entra molto il cinema in tutto ciò: lui stesso ha citato come ispirazioni per Nebraska (la canzone), Badlands (in italiano La rabbia giovane), il primo folgorante film di Terrence Malick, che racconta la stessa vicenda, e come linguaggio The Night of the Hunter, un noir del 1955 con Robert Mitchum. Però soprattutto c’entra la sua storia, il suo modo di vedere e vivere le cose. Ho sentito con le mie orecchie, qualche anno fa a Parigi, Springsteen affermare: «Chi è stato cattolico una volta, lo è per sempre». Ha studiato dalle suore, l’ha cresciuto il nonno italiano, la colpa e la redenzione sono l’innesco dei suoi racconti migliori, il suo modo problematico di stare al mondo.
"Nebraska", il disco cattolico del Boss
Non c’è disco più cattolico di Nebraska, con le sue storie di serial killer, manovali del malaffare che stanno per fare il colpo della vita, operai appena licenziati che si ubriacano, uccidono un uomo e si beccano 99 anni, poliziotti malinconici con un fratello sbandato tornato dal Vietnam, ragazzi che tornano dall’amore dopo il turno di notte e chiedono, rivolgendosi alla radio: «Ehi, rock’n’roll, liberami dal nulla» (il verbo è lo stesso del Padre nostro in inglese, «deliver»).
Come la dottrina cattolica fa da duemila anni, dai tempi di Paolo di Tarso, Springsteen trentatreenne si interroga sul libero arbitrio e i suoi limiti, sulla colpa e sulla retribuzione, sul bene e sul male, sulla ricompensa e il perdono. Altro che karma o predestinazione, non c’è nulla di semplice e neppure di troppo chiaro nella visione cattolica del destino dell’uomo. È ineffabile come la vita - liberaci dal male! - e offre eccellente materiale narrativo. Perché, non dimentichiamolo, nel poliziotto buono e nel fratello cattivo, nell’aspirante gangster di Atlantic City, nel disoccupato che finisce in galera, nel tipo che lavora di notte e perfino in Charlie Starkweather c’è un pezzo di chi racconta e – qui sta la scommessa artistica – pure di chi ascolta.
Un manuale di sopravvivenza
Quando uscì l’album avevo 16 anni. Capii che dentro c’era qualcosa di oscuro e prezioso, e poco più. Ora che di anni ne ho 56, quelle dieci canzoni sono per me una specie di manuale di sopravvivenza. Un libro sacro. Spesso mi ritrovo a recitarne versi come se salissero all’improvviso da chissà quale profondità. Specialmente gli incipit: «Hanno fatto saltare in aria Chicken Man a Philadelphia la notte scorsa, gli hanno pure fatto saltare la casa»; «La fabbrica delle auto ha chiuso a Mahwah il mese scorso, Ralph è andato in giro a cercare un lavoro ma non l’ha trovato»; «Mi chiamo Joe Roberts, lavoro per lo Stato. Sono sergente a Perrineville, caserma numero 8».
Parabole, racconti morali senza una morale, senza una risposta. Se c’è, viaggia nel vento, oppure è nel decimo pezzo, Reason to Believe. È una storia in cinque scene. Nella prima, un tipo scende dall’auto e con un bastone cerca di riportare in vita il cane che ha appena investito. Nella seconda, Mary Lou è ferma sulla strada sterrata che porta a casa: ogni sera è lì, aspetta Johnny, che l’ha lasciata. Poi ci sono un battesimo, un funerale e un matrimonio al quale la sposa non si presenta. Finisce con lo sposo che guarda il fiume scorrere e si chiede dove sia finito il suo grande amore. Il ritornello è beffardo: «Mi sembra divertente, davvero divertente, come alla fine di ogni sudatissimo maledetto giorno, la gente trovi una ragione per credere».
Nel 1990 Springsteen la suonava dal vivo da solo alla chitarra. E la presentava così: «È una canzone sul prezzo che ti fanno pagare la fede cieca, il rifiuto di rinunciare alle tue illusioni». Ma era davvero tutto qui?