Se abbiamo potuto godere della musica dei Depeche Mode per così tanto tempo, gran parte del merito va ascritto ad Andy. Perché in una band ci vuole il genio, la puttana e l'ingegnere. Fletch era l'ingegnere.
La sua fondamentale importanza nelle dinamiche interne della band era nota solo a coloro che coi Depeche Mode hanno lavorato. Fianco a fianco. Condividendo le gioie e le cadute. Andy aveva, come anche gli altri, più o meno la mia età. Ed è per questo che con lui mi trovavo a meraviglia. Come del resto anche con gli altri: Martin, Dave e Alan. Almeno fino a quando quest'ultimo è uscito volontariamente da una band al collasso dopo il Devotional Tour. Con Gore in rehab per alcool, Gahan tossico all'ultimo stadio e lui esaurito coi nervi a pezzi a tal punto da ricoverarsi in clinica.
Forse era per questo che li ritenevo immortali a prescindere dall'età. E invece il suo cuore non ce l'ha fatta. Cedendo improvvisamente e gettando me e tutti quelli che, fianco a fianco, hanno accompagnato per tanti anni le sorti di questa band meravigliosa e unica, nello sconforto e nell'incredulità.
Mi sfotteva per via del mio tifo acceso per la Roma. Lui fiero sostenitore del Chelsea, squadra per la quale tifava e che vedeva regolarmente allo stadio da abbonato, spesso insieme a Daniel Miller, fondatore della Mute e vero artefice del successo planetario dei Depeche Mode.
Anche quando, dopo quasi quindici anni, lasciai la Mute e, di conseguenza, anche loro, la band mi inviò un video nel quale mi salutava e Andy non seppe trattenere la sua battuta sul calcio e la rivalità cittadina in tipico humour inglese.
E pensare che questa notizia devastante mi è arrivata proprio dopo la vittoria in una competizione europea della mia squadra, allenata da quello che è stato per tutti i tifosi del Chelsea una leggenda. Se n'è andato ad un'età nella quale si fanno ancora progetti. Quasi me lo vedo ancora, che chiama Martin, il suo amico fraterno, in California per sapere se ha già messo a punto i demo.
Perché nulla mi toglie dalla testa che fosse lui il primo al quale Martin sottoponeva le bozze di quelle che poi sarebbero diventate le canzoni definitive. Basterebbe solo questo particolare per definire l'importanza di Andy negli equilibri delicati di una band. Ma c'era tanto altro. Come quando nei sotterranei dello Stadio Olimpico, dove ero con tutta o quasi la mia famiglia, chiamò Dove e Martin dal van per farsi tutti insieme una foto. O delle chiacchiere seduti in qualche hall di un hotel mentre lui attendeva di recarsi in un club per uno dei suoi dj set nei quali mescolava tutto. Da Michael Jackson ai Kraftwerk.
Di lui serberò con me tanti ricordi, tante risate come discussioni. Tante birre, che continuava ad offrirmi nel backstage anche se sono astemio e me ne bastano un paio per perdere la trebisonda. Mi rimane difficile credere che non ci sia più. Accettare questa notizia tremenda. Perché sarà pur vero che siamo tutti di passaggio, ma morire a sessant'anni è un'ingiustizia. Dire che mi mancherà è del tutto superfluo.
Gli ho voluto molto bene ed oggi lo piango come lo piangono quelli che lo hanno conosciuto bene behind the scene, come lo piange l'immensa moltitudine di fan ai quali non mancava di porgere dal palco il suo saluto, il suo invito a battere le mani. A partecipare a quel rito che si materializza ogni volta che l'intro di una strumentale annuncia l'ingresso sul palco. Ora, su quel palco ci sarà un vuoto incolmabile. Ci rimangono le canzoni, quelle sì. Per sempre.
Addio Fletch, non sarà possibile dimenticarti. Enjoy The Silence.