Rifiuta di diventare giudice nei talent, torna alle radici del rap, quelle più crude degli inizi, mantiene intatta un’ironia tagliente come la lama di un rasoio e non la smette di essere un “preso male” propositivo. “Pornostalgia” è il nuovo album di Willie Peyote, il sesto in carriera, primo dopo aver calcato il palco dell’Ariston di Sanremo nel 2021 con il brano “Mai dire mai (la locura)”. Nel progetto, che uscirà venerdì 6 maggio, ci sono collaborazioni con Samuel, Jake La Furia e Speranza, l’attrice Emanuela Fanelli, la stand up comedian Michela Giraud, i Fast Animals And Slow Kids e il producer bolognese Godblesscomputers.
Quando nasce questo disco?
“Tra tutti gli album che ho fatto è quello realizzato in più tranche. C’è un brano, per esempio, ‘La colpa al vento’, che nasce nel 2018, ‘La casa dei fantasmi’ invece ha preso forma nell’estate del 2020 quando ero in sala prove. ‘Sempre lo stesso film’ è molto più recente”.
È uno spaccato della tua vita negli ultimi anni?
“È davvero il primo album in cui, attraverso diversi pezzi spalmati nel tempo, riesco a racchiudere un po’ tutto: rappresenta la chiusura del disco precedente, poi c’è anche il tema della pandemia, come l’ho vissuta, e l’esperienza al Festival di Sanremo. Inoltre affronto anche il cambio della mia percezione del mondo esterno e soprattutto di come il mondo esterno abbia cambiato il suo modo di vedere me”.
Come è cambiato quel modo di vederti?
“Raccontare come si percepisce una grande, improvvisa e racchiusa in un preciso lasso di tempo, esposizione mediatica, credo sia strano e interessante. Sanremo è stata un’esperienza provante e di crescita. È altrettanto vero che si entra davvero, per una settimana, nelle case degli italiani. È lì il cambio di percezione”.
Che cosa c’è di strano?
“È strano avere a che fare con una platea che prima non voleva rapporti con te e che probabilmente neppure dopo la partecipazione al Festival ne vorrà. Prendere parte a quella manifestazione mi è servito per capire maggiormente il rapporto fra gli italiani e la musica in televisione, oltre a comprendere quello che il pubblico cerca nella partecipazione di un cantante in tv”.
Tolte le critiche che ti fecero per le dirette Twitch, mi sembra che Sanremo per te sia stata un’esperienza positiva. O sbaglio?
“Sì, ma infatti non ne faccio una questione di ‘opportunità lavorativa’. Quella è indiscutibile, ci sono diversi lati positivi. Quello che mi interessava, in questo album, era portare avanti una riflessione sul tipo di visibilità che genera Sanremo, una visibilità concentrata in poco tempo che non credo sia quella opportuna per il mio progetto. Il disco parla molto di fama, denaro e successo”.
È un album che mette tutto sulla bilancia, che dà un peso specifico a ciò che conta e a ciò che non conta. Perché questa necessità?
“Perché arriva in un momento della mia vita in cui qualche somma si tira giù. Parlare di approccio più ‘maturo’ mi sembra un po’ abusato, ma sicuramente è più adulto. E me ne accorgo quando affronto argomenti come i sentimenti e il mio rapporto con il lavoro”.
“Ufo” è un pezzo rap di sfogo, anche politico e sociale. In Italia, escluso Marracash, chi mette il dito nella piaga?
“Marra, in effetti, sta a un livello superiore. Gli ultimi due dischi lo hanno confermato. Anche Salmo ha fatto brani, con il suo stile, di denuncia. Esempi, in realtà, ce ne sono. Mi piaceva l’idea di iniziare con uno schiaffone. L’inizio musicale del pezzo è alla Nine Inch Nails, un po’ industrial. Un solco netto rispetto all’album precedente”.
In “Robespierre” racconti anche di aver rifiutato di diventare giudice a un talent. Quanto pesa un certo “no” nella carriera di un artista?
“È uno dei pezzi fondanti del disco. La partecipazione di Aimone (voce dei Fast Animals and Slow Kids, ndr) lo impreziosisce. Sul tema delle rinunce io non ne faccio una campagna etica. Faccio delle scelte e credo in chi ha sempre pensato che se un artista fa pubblicità, dando un prezzo specifico alla propria arte, perde autenticità perché si vende al primo offerente. La mia visione dell’arte è questa. Ma non giudico o attacco chi lo fa. Anzi, paradossalmente penso che alla fine abbia ragione quell’artista che riesce a dire ‘sì’ a certi meccanismi pur rimanendo in qualche modo coerente”.
Perché hai rifiutato?
“Non sarei stato capace. Mi avrebbe tolto, non dato. La tv che ho fatto mi è bastata. Non potrei fare il giudice in un talent. E non ne faccio una questione di numeri: per prima cosa non mi hanno mai offerto una cifra che cambia la vita (sorride, ndr), quindi dire di ‘no’ è stato più facile. Conosco il valore di 20 euro e anche di 200 mila euro. Per fare un talent offrono tanti soldi, ma non sono cifre che cambiano la vita per sempre a me e alla mia famiglia. Credo in un altro percorso. Ma non voglio dare giudizi di merito su chi accetta, semplicemente quella non è la strada fatta per me. Accettare avrebbe svilito quello che scrivo. Per me se l’arte ha un prezzo, perde valore”.
Perché hai intitolato il disco “Pornostalgia”?
“Il titolo è arrivato prima di lavorare al progetto. È il titolo giusto perché è esattamente l’opposto di ‘Iodegradabile’. Quell’album parla del tempo che scorre e di come non si riescano a fare tutte le cose che si vorrebbero. Il lockdown ha ribaltato il nostro mondo frettoloso: non ci si riusciva più a immaginare il domani a causa del Covid. E così ci siamo guardati indietro. Questo perché la nostalgia, forse, custodisce davvero quello che amiamo. I vecchi film, i vecchi programmi, i vecchi dischi, in una società in cui tutto è rapidissimo e si sgretola, rimangono. Perché fanno parte di quello che siamo”.
La tua “Pornostalgia”?
“È in questo disco. Credo ci siano tanti echi del passato, c'è un ritorno alle mie radici rap, a un rap un po’ più incazzato”.
“Diventare grandi” è una riflessione amara?
Sì, ma c’è della speranza. Come, in fondo, in tutte le canzoni di questo disco. Io credo che a un certo punto della vita sia necessario porsi una domanda sul ‘diventare grandi’. C’è il successo di mezzo, ma c’è anche il tema della vecchiaia. La mia credo che sia sempre stata ‘un’amarezza propositiva’. Non ho mai voluto nascondere la merda, ma allo stesso tempo ho sempre cercato di mettere in campo delle idee di cambiamento. Il cambiamento siamo noi. Sono un preso male, ma non rinuncerò a provarci. Se non fosse così, non avrebbe senso vivere”.