Il senso di Alex Britti per la chitarra

Il chitarrista romano ci ha indicato i suoi dieci riff preferiti

Alex Britti oggi compie 53 anni, oltre quaranta dei quali passati con la chitarra in mano. Un amore, quello del cantautore romano per le sei corde, che ha avuto una genesi ben definita, con dei numi tutelari che hanno nomi e cognomi precisi: da Muddy Waters e John Lee Hooker a Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan, sono state quelle dei giganti del blues le ali sotto le quali il giovane Alex ha mosso i primi passi, esplorando suoni e stili, risalendo alle origini delle dodici battute dai crediti stampati sulle etichette dei 45 giri, animato da una passione viscerale che non si è mai spenta ma che anzi, anno dopo anno, è diventata sempre più gioiosamente invadente.

Ecco perché, per festeggiare il suo compleanno, un paio di anni fa abbiamo deciso di chiedergli di segnalarci i dieci riff di chitarra più importanti nella sua formazione artistica: lui non solo ce li ha indicati, ma li ha anche commentati uno per uno, per accompagnarci in un viaggio che, andando a ritroso nel tempo, parte da chi il blues l'ha proeittato nel futuro per andare dritto alle origini, passando per le tappe fondamentali non solo del sound che dal Delta ha conquistato prima gli States fino a Chicago, poi il mondo intero, ma di tutta la musica contemporanea.

E' un'appassionante lezione di musica, quella che Alex Britti ci ha regalato per il suo compleanno, che non solo aprirà un importante squarcio - a beneficio di neofiti o curiosi - su artisti poco frequentati dalla stampa mainstream specializzata, ma che farà capire a chi si sta avvicinando allo studio della chitarra come le uniche due cose indispensabili per tirare fuori qualcosa di notevole da una sei corde siano passione e impegno. Il resto è solo colore, e lui, che con lo strumento al collo continua a stupire, ne è la dimostrazione: se c'è - parafrasando il Tom Waits di "Bone Machine" - "that feel", non serve nascere sulle rive del Mississippi per prendere una chitarra e farla cantare. Anche quelle del Tevere vanno più che bene.

Jimi Hendrix, "Voodoo Chile" (da "Electric Ladyland", 1968)

Alla fine, parte tutto da qui. C'è la chitarra elettrica, il distorsore, e un wha-wha, che nel '69, quando è stato registrato "Electric Ladyland", era una novità. Hendrix, con il riff di "Voodoo chile", è stato capace di proiettarsi verso il futuro senza rinnegare il passato e il blues. All'epoca lui era un ragazzo di 25 anni, ma già famoso, e con grandi budget a disposizione, in grado di permettergli di costruire i suoi studi a New York [gli Electric Lady Studios, attivi ancora oggi]. Questo è il Jimi Hendrix al picco della sua creatività: musicalmente parlando il riff di "Voodoo chile", come importanza nella storia della musica, viene subito dopo Beethoven e Mozart.

Stevie Ray Vaughan & Double Trouble, "Cold Shot" (da "Couldn't Stand the Weather", 1984)

C'è il blues di Chicago, quello del sud e quello texano, del quale Stevie Ray Vaughan è stato uno dei più grandi esponenti. Il blues texano è diventato elettrico dopo quello di Chicago, ma è diverso: è duro, ma ci si sente il sole, dentro. E' come il southern rock dei Lynyrd Skynyrd. Mentre il blues di Chicago ha aperto la strada al rock del nord degli Stati Uniti, che poi ha avuto il suo epicentro a Seattle, altra città fredda e piovosa come Chicago, quello texano è stato l'antesignano del rock del sud, più allegro e solare. In questo riff c'è il blues, ma c'è anche la gioia.

Freddie King, "Hide Away" (da "Let's Hide Away and Dance Away with Freddy King", 1961)

Facciamo un passo indietro. Vaughan è stato rivoluzionario perché ha cambiato radicalmente quello che era il fraseggio blues chitarristico, sintetizzando gli stili di due grandissimi chitarristi della generazione precedente, T-Bone Walker e - appunto - Freddie King. King è stato il primo a esaltare la chitarra, in un periodo - gli anni Sessanta - dove le sonorità erano diverse rispetto a quelle più moderne. Oltretutto, lui - afroamericano - è stato il primo ad andare in televisione a proporre la sua musica, in una zona degli USA - sempre il Texas - dove in quegli anni ancora vigeva la segregazione: quella di King è stata una rivoluzione in termini non solo prettamente musicali.

Michael Jackson, "Black or White" (da "Dangerous", 1991)

Michael Jackson si è sempre trattato bene, in fatto di chitarristi: pensate a "Beat It", le cui parti di chitarra sono state registrate da Steve Lukather dei Toto ed Eddie Van Halen. Questo riff [inciso dal produttore di "Dangerous" Bill Bottrell poi diventato celebre tra le dita di Slash, che l'ha eseguito diverse volte dal vivo] è solare, molto divertente anche da suonare, oltre che da ascoltare. Perché, fondamentalmente, è allegro.

David Lindley, "Your Old Lady" (da "El Rayo-X", 1981)

David Lindley è il responsabile della mia iniziazione alla chitarra elettrica. Lo conobbi per caso, grazie a un mio cugino più grande. In "El Rayo-X" c'era la cover di "Twist and Shout", una delle canzoni che mi hanno fatto sentire l'esigenza di passare dall'acustico all'elettrico. Così, con i soldi che avevo messo da parte facendo i primi concerti, ai quali fui costretto ad aggiungere quelli incassati vendendo la mia Vespa 50, riuscii a comprare la mia prima chitarra elettrica, una Fender Stratocaster - nonostante, in prima battuta, mi fossi orientato verso un modello elettrico della Eko. Già, per colpa di Lindley - e di Santana - non sono uscito di casa praticamente per due anni...

Santana, "Soul Sacrifice" (da "Santana", 1969)

Per la mia formazione, Santana è stato il più importante di tutti. Io ero un ragazzino, ascoltavo Edoardo Bennato e Ivan Graziani, e Lindley lo sentivo "lontano". Per non parlare di Hendrix, troppo complesso per me, all'epoca. Santana è messicano, e quindi latino, e di conseguenza più vicino alla nostra cultura. Pensate, per esempio, al riff di "Europa": la linea melodica potrebbe essere di Modugno, se presa per quello che è. Santana è stato il mio "traduttore" musicale, mi ha fatto capire la tastiera della chitarra, mi ha insegnato a trovare le note giuste.

Bill Withers, "Use Me" (da "Still Bill", 1972)

Insieme a J.J. Cale, Bill Withers è stato il primo, vero, cantautore blues. Ha aperto una strada, perché era un cantautore a tutti gli effetti, ma anche un bluesman al 100%. E' stato capace di mettere la chitarra al servizio della canzone, e quello di "Use Me" è a conti fatti un riff pazzesco, di quelli che ti rimangono appiccicati per sempre. Allo stesso tempo, tuttavia, non oscura il brano. Questo equilibrio tra riff e composizione lo si trova anche nelle canzoni di James Brown, ma nel suo caso i presupposti erano profondamente differenti: se fosse vivo oggi, Brown sarebbe una specie di David Guetta, le liriche delle sue canzoni erano slogan sui quali potevi ballare. Withers era diverso, perché i suoi testi erano molto più strutturati.

Rolling Stones, "Miss You" (da "Some Girls", 1978)

Il riff, per definizione, è ipnotico: succede spesso di non ricordare la canzone ma di avere ben in mente il riff della stessa. Quello di "Miss You" - alla registrazione del quale ha contribuito all'armonica anche il grande Sugar Blue - al primo ascolto non riuscii a inquadrarlo, forse perché ero troppo giovane per capirlo. Poi, però, ne ho compreso la grandezza: in genere siamo abituati ai Rolling Stones più rocckettari e "caciaroni", ma con "Miss You" Jagger e Richards hanno dimostrato una profondità sorprendente.

Muddy Waters, "Mannish Boy" (1955)

Questo è il riff blues per antonomasia. E' l'eccellenza. Non è più nemmeno un cliché, perché ormai ha superato anche quel ciclo: è andato oltre anche al brano stesso nel quale è contenuto e al suo autore, tanto da diventare un elemento musicale inserito in chissà quante canzoni senza nemmeno essere citato. Il detto "siamo ciò che mangiamo" vale anche in musica, alla fine: il riff di "Mannish Boy" è entrato nel dna musicale occidentale perché ce ne stiamo nutrendo da tantissimo tempo.

John Lee Hooker, "Boom Boom" (da "Burnin'", 1962)

Non molto tempo fa ho acquistato una raccolta con incisioni rare di John Lee Hooker, tra le quali c'era anche una versione di questo brano. Qualche giorno dopo, mentre ero a casa, ho sopreso mio figlio di due anni canticchiare "boom boom boom boom...". Ho preso la chitarra, ho iniziato ad accompagnarlo: è stata una cosa speciale, come padre ne sono stato estremamente orgoglioso. Del resto il ritornello di "Boom Boom" non ha un vero e proprio testo, ma gioca tutto su un'onomatopea, una cosa primordiale, che può essere assimilata e ripetuta da un bambino prima ancora di iniziare a parlare.

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